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Renzi, niente botto a fine anno

Renzi, niente botto a fine annoIl presidente del consiglio Matteo Renzi e le slide con i gufi a fumetti

Governo «Referendum a ottobre, se perdo ho fallito». «Sono il leader più votato d’Europa», e se le amministrative non buttano bene, fa nulla « lì si elegge il sindaco». Parte la rincorsa verso il quesito costituzionale. Slide e gufi a fumetti, il presidente del Consiglio si autoconvince: «Italia solida con l’Italicum, il paese cresce, politica batte populismo 4 a zero»

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 30 dicembre 2015

Passino le slide, transeat, ma i gufi disegnati come un fumetto che recitano obiezioni improbabili all’azione di governo, tutte contestazioni fesse – e forse mai rivolte in questa forma – perfette solo per essere sbeffeggiate, cosa che infatti il presidente del consiglio fa, in una gag che si ripete una quindicina di volte? Il Renzisciò di fine 2015 inizia così, con un monologo di 26 minuti in cui, solo il gufo a fargli da spalla, il premier recita la newsletter inviata due giorni prima ai suoi follower, con le 15 cose «fatte» dal suo governo, «le prime che mi sono venute in mente». Il format è lo stesso della propaganda impacchettata nel kit del bravo renziano, ma stavolta ha di fronte giornalisti; magari non saranno tutti campioni mondiali del diritto di critica, tuttavia dovrebbero essere esentati da affermazioni tipo «legge elettorale, riforme, immigrazione, scuola: con questo governo politica batte populismo 4 a zero». Oppure: «Grazie all’Italicum, un capolavoro parlamentare, questo paese è stabile», ma la sua legge elettorale non è stata ancora mai utilizzata, «non sono terrorizzato dal perdere consenso. Oggi se dovessi fare una previsione sulle politiche del 2018 direi che noi vinciamo al primo turno». E la solita poesia sul jobs act che funziona benone: ma la disoccupazione scesa all’11,5 per cento come si concilia con l’aumento di quella giovanile e dei lavoratori inattivi? La domanda non arriva, quindi neanche la risposta. Per la cronaca: la sterminata aula dei gruppi parlamentari della Camera stavolta ha parecchie file mezze vuote, segno che qualche linea di noia sta salendo nel termometro dei media. E dopo il comizio dei 26 minuti seguono venti risposte in due ore in cui la verve iniziale si spegne in troppe non notizie, tanto che lo stesso premier ogni tanto annuncia il botto «per svegliare l’uditorio assopito».

Ma il botto non arriva, arrivano giusto alcuni dettagli rivelatori. Non è un gran notizia l’annuncio che «se perdo il referendum (costituzionale, annunciato per ottobre 2016, ndr) considero fallita la mia esperienza politica»; ma è interessante sapere che da presidente del consiglio farà una campagna capillare per vincere. Prima di allora ci saranno le amministrative, per le quali anticipa la data indicativa del 10 giugno. Un voto verso cui ostenta poca passione: «Si eleggono i sindaci, non un premier». Ma è una calcolata strategia dell’understatement: per il momento le primarie buttano bene solo a Milano. Il voto anche. Il Pd vuole rifare l’alleanza con la sinistra? Sembra di sì, a giudicare dagli appelli dei due vicesegretari Guerini e Serracchiani. E invece no, ad ascoltare qui il premier-segretario: «Prendiamo atto che parte delle persone che erano con noi, come Sel e Sinistra italiana, non vogliono più stare con noi: è una valutazione che compete loro. Andremo con chi ci sta». Neanche Grillo stavolta è oggetto di fuochi artificiali. Accusa il governo di ballare sui morti dell’inquinamento? «Non commento la strumentalizzazione dei morti»
E non è una gran notizia neanche l’annuncio che la legge sulle unioni civili «arriverà nel 2016 che sarà un anno chiave», anche perché lo aveva già detto l’anno scorso. Ammette che «nel Pd ci sono divisioni». Sul tema delicato delle stepchild adoption, l’adozione dei figli dei partner sul quale gli alfaniani sono pronti alle barricate, si limita a dire che «la discussione deve essere rapida», «svincolata dal governo», e che «nasce come proposta della Leopolda» nel 2012, «l’abbiamo appoggiata sin da allora», ma non dice, come invece alcune associazioni credono di intendere, che non permetterà lo stralcio per portare a casa comunque la legge. Alla fine il messaggio è debole, e da bravo comunicatore lo capisce: prova rimediare usando parole d’affetto – dopo anni – per i radicali per la battaglia contro le mutilazioni genitali e la pena di morte (ma anche «Nessuno tocchi Caino, Amnesty, Comunità di Sant’Egidio, le realtà cattoliche e buddiste»).

Resta sulla riva del fiume anche a proposito della commissione d’indagine sui crack delle banche: non c’è più la convinzione dei primi giorni, «il parlamento deciderà», sulle regole europee un ricorso alla Corte di Giustizia non è escluso («se riterremo che ci siano state violazioni delle condizioni di gioco»). Il premier non attacca la Germania, spiega, anche se dal suo stesso entourage avevamo capito il contrario, «stiamo soltanto alzando la mano per fare delle domande», «stiamo chiedendo di far rispettare le regole su tutto a tutti. l’Italia non sta attaccando l’Europa, la sta difendendo», infine i risparmiatori stiano tranquilli «non c’è un rischio del sistema, quando uno viene truffato, deve sapere che lo Stato è al suo fianco».

Dove può, il premier scarica sui governi precedenti tutte le pentole che il suo governo è impegnato a coperchiare: il pasticcio dei marò («dal 2015 la vicenda ha preso una piega diversa dal passato: c’è un tribunale internazionale»), il regolamento di Dublino («firmato da Berlusconi e poi da Letta»), il fiscal compact («votato dai predecessori di questo parlamento»), la guerra sbagliata in Libia («gli interventi unilaterali non hanno funzionato. Oggi sarebbe un clamoroso errore, ed è la posizione dell’Italia, degli Usa, di altri paesi»).

Ma alla fine il Renzi di fine 2015 è meno bullo di quello dell’anno prima. Certo, ogni tanto gli scappa la frizione e torna il guascone dei bei tempi andati, quelli del 41 per cento (alle europee e con metà elettorato rimasto a casa), non resiste al gusto di dare una nuova zampata al predecessore Enrico Letta, «una legislatura strascicata che non andava avanti». E scambia desideri per realtà quando paragona i voti di Angela Merkel ai suoi, «il leader più votato d’Europa è il capo del partito democratico»,. Che però al voto in prima persona fin qui non ci è mai andato. Almeno fino al 2015.

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