Per capire il senso dell’atteso incontro di venerdì a Berlino bisogna guardare a quello che è successo a Torino ieri, interpretare il messaggio lanciato dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco al congresso Assiom-Forex. Il governatore ha sbandierato la stabilità del sistema bancario italiano: «Sono ben patrimonializzate e le tensioni sui mercati sono ingiustifcate». Ha speso buona parte del proprio discorso per difendere l’operato di Bankitalia quanto a vigilanza sulle quattro banche salvate: l’intervento è stato tempestivo, la «mala gestio» è emersa proprio grazie alle ispezioni disposte dalla Banca centrale, il commissariamento è arrivato al momento giusto, il salvataggio senza alternative.

Ma sin qui era repertorio. Il pezzo forte è il nuovo affondo contro il bail-in. La direttiva «va rivista entro il giugno 2018». Del resto, la stessa normativa, «contiene una clausola che prevede la revisione e l’occasione va sfruttata facendo tesoro dell’esperienza». Parole che vanno sommate alle frecciate di Matteo Renzi contro Juncker a Berlino, alla nemmeno velata minaccia di sfiduciarlo, al fermento del gruppo socialista guidato da Gianni Pittella contro il presidente della Commissione. Il risultato è inequivoco: l’Italia si prepara a un braccio di ferro durissimo non con la cancelleria più potente d’Europa, ma con la Commissione. Lo scontro sarà con Bruxelles, non con Berlino, ma per ingaggiarlo il premier italiano ha bisogno della neutralità, o almeno di un intervento non troppo deciso, di Angela Merkel.

La posta in gioco va oltre i singoli contenziosi. L’Italia chiede che i 220 milioni circa della sua quota nei 3 miliardi per la Turchia non vengano contati nella legge di Stabilità. E’ una cifra modesta, e Juncker, uscito battuto dalla scaramuccia delle settimane scorse sarebbe più che disposto a concederla. Ma il premier italiano non nasconde l’intenzione di adoperare poi lo scorporo per reclamare lo “sconto” dell’intera e ben più cospicua cifra spesa in bilancio per l’emergenza immigrazione: 3 miliardi e mezzo.

L’Italia, inoltre, vuole che la sua legge di stabilità venga vistata così com’è, senza bisogno di una manovra correttiva che capiterebbe nel momento peggiore, alla vigilia delle elezioni comunali. Bruxelles è invece irritata al massimo grado per i giochi di prestigio nei conti presentati da Roma e molto di più per la scelta di fregarsene delle «raccomandazioni» europee, che chiedevano di sorvolare sul taglio dell’Imu e dirottare quei soldi sul taglio delle tasse per l’industria.

Faccende in sé tutt’altro che trascurabili, ma secondarie rispetto al vero obiettivo di Renzi, che è modificare sostanzialment i reapporti di forza tra Italia e Commissione e, allo stesso tempo, imporre l’Italia come “terza gamba” della leadership europea attualmente solo franco-tedesca. E’ una missione oltremisura ambiziosa, ma si sa che da questo punto di vista Matteo Renzi non si è mai fatto mancare niente. Da Berlino il premier non torna a mani vuote. Sulla flessibilità, cioè su un radicale mutamento di indirizzo nella politica economica europea, il dissenso resta forte, e non potrebbe essere altrimenti. Ma Angela Merkel, in privato e poi anche in conferenza stampa, è andata molto vicina a promettere quella neutralità tedesca che per l’Italia è fondamentale, e l’offerta di un «patto di consultazione permanente» risponde alla richiesta avanzata dall’Italia di mettere un piede nella tolda di comando europea.

Renzi ha ricambiato ieri da Ventotene, in visita con il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini per celebrare il «Manifesto» idealmente fondativo dell’Unione: «Chi vuole distruggere Schengen vuole distruggere l’Europa e non lo permetteremo». Mantenere Schengen è interesse anche e soprattutto italiano, ma l’impegno è più vasto: schierarsi a fianco della cancelliera contro ogni spinta disgregatrice.

Ciò non toglie che lo scontro con Bruxelles potrebbe essere più che aspro, e che l’esito non è affatto certo. Ma a Berlino si sono incontrate non due ma tre debolezze, mettendo nel conto quella estrema del “convitato di pietra”, Jean-Claude Juncker. A torto o a ragione, Renzi è convinto di essere al momento, fra i tre, il meno debole. Se abbia ragione o torto, lo si vedrà in primavera.