Quando si dice che in Italia non c’è più un’opposizione – e questo da una buona quindicina d’anni, per effetto della graduale convergenza della sinistra moderata sulle posizioni della destra – si enuncia un titolo generale che va poi sviluppato nel dettaglio. Una questione concerne le peculiarità del renzismo, malattia congenita della post-democrazia italiana.

Con Renzi al potere la mutazione della sinistra – il suo paradossale trasformarsi nel proprio contrario – è più che mai evidente. Lo è per diverse ragioni, non ultima il fatto che Renzi viene dopo alcuni prestigiosi apripista (Veltroni e lo stesso inventore delle lenzuolate e della ditta), dei quali raccoglie la preziosa eredità. Ma c’è una ragione su tutte. Renzi è anche il legittimo erede di Berlusconi, il suo allievo più solerte e talentuoso, il suo continuatore. Anzi, meglio: Renzi è Berlusconi. Ne è la reincarnazione, il clone, la nuova epifania sotto mentite spoglie.

I provvedimenti del suo governo parlano chiaro. Ha ragione l’onorevole Brunetta quando segnala che il governo sta semplicemente attuando il programma di Forza Italia. Meno tasse per i ricchi e gli industriali nel paese che da decenni registra il record dell’evasione e dell’elusione fiscale e contributiva, oltre che della corruzione. E un attacco senza sconti alle tutele e ai diritti del lavoro dipendente pubblico (a quei fannulloni degli insegnanti e dei pubblici impiegati) e privato (con l’azzeramento dell’art. 18 e il semaforo verde all’impresa per il controllo sulla vita privata di operai e impiegati). E una campagna distruttiva contro le organizzazioni sindacali, dal Pd abbandonate al proprio destino. Dove il sindacato è additato come il nemico numero uno della libertà d’impresa secondo il vangelo di Marchionne, o come il fattore principe del ritardo del paese, secondo il vangelo di Squinzi.

E, ancora, un pacchetto di «riforme» istituzionali (Costituzione, legge elettorale, radiotelevisione) che vengono insediando il più sgangherato e mefitico regime presidenzialistico, radicalizzando il controllo oligarchico sulle rappresentanze elette e accentrando tutti i poteri di controllo – anche sulle massime autorità di garanzia della Repubblica – nelle mani di un capo «solo al comando». Altro che Senato elettivo o meno, come vorrebbe far credere la sedicente «opposizione interna» del Pd! Il punto è la pronta consegna di tutti i poteri nelle mani di un solo padrone politico, lo slittamento verso una monarchia di fatto potenziata da un’apparente legittimità repubblicana. È il profilarsi di un peronismo postmoderno fondato sulla delega in bianco da parte di un «popolo sovrano» che «dice sì», gabbato con qualche brillante manovra demagogica ed espropriato della facoltà di intendere e volere.

Il vecchio boss di Arcore non crede ai suoi occhi. È dispiaciuto, certo, per non essere lui a firmare questo capolavoro. E perché la performance del giovane capetto di Rignano sull’Arno rischia di costargli cara in termini elettorali. Ma quando guarda alla sostanza, rischia di commuoversi. Chi glielo avrebbe detto che i suoi desideri si sarebbero realizzati in pieno, che i sogni accarezzati ai tempi delle scampagnate con Licio Gelli sarebbero divenuti realtà, e proprio per iniziativa di chi avrebbe dovuto contrastarli?

E poi ci sono i modi, le forme, che in politica sono sostanza. Come e meglio del maestro, Renzi ha infarcito il proprio partito di nani e ballerine e ne ha fatto una giostra di conformismo e di servilismo. Del parlamento – culla del trasformismo – ha la stessa considerazione del vecchio, che intendeva ridurlo ai soli capigruppo. Quanto alla comunicazione, il modello è addirittura eclissato. Berlusconi si affidava alle videocassette e alle calze di nylon, Renzi imperversa implacabile coi cinguettii più molesti. E, complice una stampa di velinari, diffonde per ogni dove una sequela di bugie e di promesse sempre più improbabili. Dove ogni nuova sparata eclissa la precedente e ne cancella il ricordo.

Per un verso era inevitabile che, sullo sfondo del neoliberismo, vent’anni di berlusconismo incidessero sui modelli di comportamento, gli stili della comunicazione e la sottocultura del ceto politico, finendo con l’incardinare una concezione patrimonialistica delle istituzioni. Ma non era scritto che si arrivasse a tanto, a questa identificazione con il deus ex machina della destra populista proprio da parte dei vertici di quello che, in teoria, dovrebbe essere il suo più agguerrito avversario. Allora si deve avere il coraggio o forse soltanto la sincerità di dire forte e chiaro, per una volta, che la vittoria anzi il trionfo di Berlusconi è il dato saliente di questa infausta fase post-democratica (post-politica) della storia nazionale.

Questo è il dato di fondo, di là da dettagli inerti ai fini della comprensione storico-critica. E che cosa significa tutto ciò? La misura della regressione è spaventosa. Investe in primo luogo la politica economica e sociale e il sistema democratico, minacciato da un disegno neo-autoritario. Ma ciò che desta le maggiori preoccupazioni in un paese cronicamente afflitto dalla corruzione, dall’incidenza della criminalità organizzata, dalla collusione istituzionalizzata coi poteri mafiosi, dalla capillare pervasività di reti di affiliazione segreta, è l’ostentato rifiuto di chi governa (e, non di rado, anche di chi amministra) di dispiacere agli amici degli amici – al potere ecclesiastico, alle lobbies delle armi e del gioco d’azzardo, al popolo dell’evasione fiscale, ai padroni della stampa e del credito, fossero anche in bancarotta fraudolenta. È la disinvoltura sempre di nuovo ostentata nei rapporti con i poteri occulti e l’illegalità diffusa.

Può darsi che non tutto sia ancora perduto, che non sia già troppo tardi per riaprire in Italia la questione democratica. Ma se è così è da questo osceno grumo di complicità che occorre partire nell’analisi concreta del nuovo caso italiano.