È un copione che si ripete sempre uguale. Le voci riportate di buon mattino dai media raccontano un Conte pronto a trattare col dinamitardo di Rignano, alludono a una possibile prima e timida schiarita. Il premier si accinge infatti a incontrare separatamente i capigruppo di maggioranza, poi dovrebbe toccare ai leader. Avvio di verifica, esordio di disgelo. Poi il reprobo di Iv prende la parola e spazza viale le illusioni. Ieri ha usato la newsletter per ripetere quanto già urlato con i decibel al massimo nell’aula del Senato e per rispondere a chi lo accusa di affondare nel politicismo un Paese che già rischia di affogare per più tangibili correnti impetuose: “Se davanti alla più grave crisi economica dal dopoguerra il governo non può fare politica e deve farsi sostituire da una task force significa che qualcosa non va”. Nessun vento di pace.

Stavolta però il leader di Iv dice qualcosa in più: “La cosa incredibile è che in privato tutti ci danno ragione, poi in pubblico prendono le distanze”. E’ proprio così. Tutti condividono alcune delle critiche di Renzi, anche LeU e l’ala governista dei 5S. Molti, il Pd e l’area Di Maio, le condividono tutte, virgola per virgola. Solo la capogruppo di LeU al Senato De Petris risponde a muso duro: “Minacciare la crisi è irresponsabile. Con le elezioni non riusciremmo più a investire adeguatamente i fondi del Recovery: un delitto”. Ma senza esporsi troppo è il Pd stesso a prendere le distanze da una crociata che per un po’ è stata anche sua.

La cabina di regia, spiegano dalle parti del Nazareno, ci sarà: impossibile ormai tornare indietro e in fondo la chiede anche Bruxelles. Certo i poteri dei commissari verranno più o meno cosmeticamente ridimensionati e il comitato esecutivo potrebbe essere allargato a qualche altro ministro oltre Conte, Gualtieri e Patuanelli. Ma la struttura per il Pd e anche per gli altrettanto critici 5S va salvaguardata. La “chiamata incorreità” di Renzi si spiega proprio con l’essere stato lasciato solo nella campagna contro la task force . Rivela un comprensibile disappunto. Da solo, senza l’appoggio pur tacito di Zingaretti e Di Maio, l’ex segretario del Pd si ritrova con la Santa Barbarba quasi vuota. Almeno si può però parlare di ricomposizione tra Conte e i due soci principali della maggioranza, in particolare il Pd? Macché. Il Pd è pronto a rientrare nei ranghi sulla cabina di regia, non sul rimpasto, termine gergale con il quale si intende una ristrutturazione profonda sia della composizione che degli indirizzi del governo.

Certo, solo a mezza bocca e tramite voci molto informali, Conte sembra essersi convinto della necessità di rimettere le mani nel governo, essendo la necessità di “un chiarimento” ormai riconosciuta anche dal Colle. Più che le mani però intende affondare nella melmosa faccenda la punta delle dita, fuor di metafora sostituire qualche ministro particolarmente sgradito persino al partito d’appartenenza, come il 5S D’Incà o la Pd De Micheli, e fermarsi lì. Di vicepremier pesanti come Di Maio e Andrea Orlando, che ridimensionerebbero il suo potere, non se ne parla proprio. Ma proprio questo è, senza mezze misure, il prezzo che il Pd chiede per spalleggiare il premier nella guerra contro Renzi. Un Pd che non ha apprezzato la trovata di pianificare un incontro con i capigruppo invece che con i leader proprio perché lo interpreta come segnale della resistenza fortissima che Conte ancora oppone sul fronte del rimpasto.

La partita è più che mai aperta, sia perché non è affatto detto che il Renzi isolato rinunci ad andare comunque fino in fondo contro la cabina di regia, sia perché intorno alla posta del rimpasto il clima tra palazzo Chigi e Nazareno resta tempestoso. La parabola non potrà essere troppo lunga, altrimenti il danno d’immagine in Europa sarebbe grave e con conseguenze non limitate all’immagine. L’opposizione potrebbe giocare un ruolo rilevante se non fosse a propria volta paralizzata dalle divisioni interne. Ieri Salvini aveva azzardato una mossa astuta: elezioni in caso di caduta di Conte sì, ma “non durante il Covid”. Una formula che apriva alla possibilità di un governo di unità nazionale e che avrebbe lasciato Conte del tutto allo scoperto. Meloni si è subito opposta fragorosamente e Salvini è arretrato spiegando, a onta del senso del ridicolo, che intendeva naturalmente un governo di destra sino alla fine della crisi Covid. Come non detto e Conte tira il sospiro di sollievo senza neppure aver avuto il tempo di spaventarsi.