Quando è troppo è troppo, anche per un onorevole democratico. Ieri giornata di riunioni nel Pd. L’ultimo braccio di ferro che Renzi ha ingaggiato con il suo partito ha snervato anche i più felpati mediatori. Renzi ha offerto all’asse Franceschini-Orlando-Bersani l’apertura alle coalizioni, nella prossima legge elettorale, a patto però di andare al voto l’11 giugno. Ma fra gli eletti dem l’idea di andare a votare in una situazione non favorevole dei conti pubblici e dei consensi perde fan ogni giorno. Insieme al segretario che la propone.

Ieri l’improvvisa cancellazione della riunione dei deputati che si doveva tenere oggi proprio per discutere di legge elettorale (si terrà il 15 febbraio) è stata la classica goccia. In realtà su chi ha davvero deciso la sconvocazione dell’appuntamento c’è un rimpallo di responsabilità, ma chi ha parlato con Renzi assicura che è stata una decisione arrivata da Montecitorio, e cioè dal capogruppo Ettore Rosato. Il più renziano dei franceschiniani, e tuttavia un franceschiniano. Fatto sta che deputati e senatori della maggioranza, franceschiniani e renziani, si sono visti al senato. Nel pomeriggio si sono incontrati i ministri Orlando e Martina. A tarda sera i franceschiniani erano ancora riuniti. E una riunione del genere non è mai un buon segno per il segretario pro tempore del Pd. Stavolta non è un buon segno per Renzi. Tre anni non lo fu per Enrico Letta, che alla riunione di direzione successiva fu defenestrato.

Anche stavolta c’è una riunione di direzione convocata, almeno finora, e il caso vuole che sia convocata in quella stessa data in cui tre anni fa il Pd «cambiò verso». L’opzione del voto a giugno ormai è data per improbabile anche dagli ultimi gappisti del segretario.

L’obiettivo di trasformare la riunione del 13 nel suggello dell’accordo dentro il Pd sulla legge elettorale per poi andare a chiedere i voti a Forza Italia e a centristi sfuma. Ieri Renzi, che è rimasto ancora lontano da Roma, ha fatto circolare l’ipotesi di un congresso anticipato prima delle amministrative di giugno (quelle si voteranno senza dubbio). Ma la minoranza bersaniana, che ha già fatto capire che non sarà mai disponibile al voto anticipato, ha risposto rilanciando: «Per far partire il congresso nelle prossime settimane è necessario che Renzi si dimetta», spiega Dario Ginefra, statuto alla mano. Questo week end a Firenze un gruppo di ex cuperliani ha messo insieme le minoranza Pd in un unica kermesse: Speranza, Emiliano e Rossi, tre papabili.

Ma non è dalla minoranza che viene la vera insidia per il segretario: è l’asse fra i ministri Franceschini e Orlando, e l’intenzione di fare un passo avanti di quest’ultimo. A nome degli ex Ds – Ugo Sposetti, tesoriere del patrimonio ha indicato lui come uomo di assoluta fiducia per quel mondo – e senza il veto di Franceschini. E con l’alta benedizione – se utile si vedrà – di Giorgio Napolitano. Di fronte a questo cambio di vento Renzi potrebbe rapidamente cambiare piano e puntare al voto il 24 settembre, allineandosi alle urne tedesche. Sempreché resista alla maledizione di febbraio.