Difficile se non impossibile sintetizzare la forza comica di Renato Pozzetto, tanto che la sua autobiografia da pochi giorni in libreria per Rizzoli, oltre al titolo, Ne uccide più la gola che la sciarpa (Rizzoli, 288 pagine – 18,50 euro), che riporta al surrealismo dei primi anni milanesi tra Jamaica e Derby, offre anche una quarta di copertina con un gridato «Taac!» che richiama direttamente, Il ragazzo di campagna e l’epopea cinematografica che lo vide assoluto protagonista degli anni Ottanta. Nato nel 1940, milanese, sfollato di guerra sul lago Maggiore tra Gemonio e Laveno (da cui non si separerà mai), Pozzetto segue con regolarità il percorso di ogni italiano dell’epoca a cui erano assicurati istruzione e lavoro, ma ad un certo punto la necessità di libertà e leggerezza prendono il sopravvento. Quello che poteva sembrare solo un passatempo e a tratti un vizio da scansafatiche, diventa un elemento irrinunciabile di una natura artistica irreprimibile.

FAR RIDERE sì, ma come conseguenza di una curiosità assoluta verso un mondo in radicale mutazione, in cui per la prima (e forse unica) volta sembrano essersi mischiate le carte facendo convivere nei suoi locali, bar e cinema ceti sociali diversissimi, abitudini sconosciute e interpretazioni ancora più eclettiche. Artisti, comici, attori, scrittori e malviventi vivono sotto la medesima luna dandosi senso l’uno con l’altro. Perché in fondo nessuno di loro sapeva per davvero chi era e cosa faceva o avrebbe fatto. Le definizioni sarebbero arrivate dopo, le carriere (più o meno lecite) avrebbero assunto forma con il tempo, intanto quello che contava era capirsi e conoscersi, con gli altri e con se stessi. Era un gioco diffuso tra locali e strade in cui qualunque cosa o persona poteva venire coinvolta. Un gioco che richiedeva un alto senso del rischio e quasi sempre nessuna misura. Un contesto creativo straordinario conscio che solo includendo avrebbe potuto rigenerarsi e crescere. E così per molti anni è stato.

SI PARTE dai primi numeri con Cochi (Aurelio Ponzoni) conosciuto sui banchi di scuola e poi suo sodale per molti anni e amico per sempre, e si arriva in men che non si dica ad un successo travolgente con il cinema che lo porta in vetta ad ogni classifica quando quelle classifiche rivelavano straordinari incassi e non poche critiche. Quel cinema infatti per molti fu un tradimento ad un’idea di comicità considerata un tempo raffinata e surreale e ora troppo facile. E non manca una certa autocritica in Ne uccide più la gola che la sciarpa, ma anche la rivendicazione di un mestiere, quello dell’attore comico che vive spesso più sulle occasioni che sulle scelte possibili e che anzi nasconde dietro ai film, e ben oltre la loro lavorazione, un gusto per la vita fatto di scorribande e numeri che varrebbe più di una serata su un palco.

Inutile e anche impossibile ripercorrere gli aneddoti che lo stesso Pozzetto ammette di avere in alcuni casi rimosso o dimenticato, mentre resta fondamentale cogliere quel passaggio che fu improvvisazione e istinto e poi mestiere e professionalità. Se nel primo c’è il gusto di un eroismo leggero e liberatorio da fine della guerra nel secondo permane un movimento sempre comune alla società italiana che però rivelò proprio in quegli anni una peculiarità per il cinismo e una grettezza fino ad allora inedita. Le ideologie agli sgoccioli e la ricchezza diffusa e per certi versi facile stava mutando nuovamente il carattere degli italiani probabilmente in peggio.

E così mentre il tempo, tutto «vecchia Milano», del Derby Club e del Bar Jamaica trascorso con Jannacci, Cochi, Lino Toffolo, Maria Monti, Dario Fo, Diego Abatantuono, Mariangela Melato, Piero Manzoni e Lucio Fontana solo per citarne alcuni e solo per dare l’idea di un milieu pazzo e tutt’altro che banale, resta ad oggi quale tempo assoluto e mitico, quello del cinema degli anni Ottanta cova al suo interno una malinconia che appartiene a chiunque si illuse di una facilità apparente. La leggerezza era diventata artificiale, ai molti che stavano abbandonando la scena si opponevano altri trattenuti in ingranaggi opprimenti.
Pozzetto ebbe la forza sia per resistere che per mollare il colpo prima che fosse troppo tardi, conservando una bellezza d’animo disincantata che la sua autobiografia regala senza badare troppo alle storie, ma lavorando invece su una nostalgia inevitabile. I ricordi diventano dimenticanze preziose e presagi che arrivano direttamente dal passato. Un vita che «sembra un giorno di festa» anche quando tutto va rimesso in ordine.