«O Dio, che esisti in trinità, / che da tanti pericoli mi hai tratto / e hai sofferto che facessi tanto male, / che non avrei dovuto fare, / difendi il mio corpo d’ora in avanti / per la tua santa volontà! / E dammi un aspetto tale, / travisami in tale maniera / che non ci sia animale che mi veda / e sappia dire chi sono».
In questa preghiera c’è tutto lo spirito di Renart, il grande eroe delle storie della volpe in antico-francese (1170-1250): la sua sfrontatezza, il pentimento, simulato, per le male azioni compiute e l’intenzione di continuare a farne, con la sicurezza di cavarsela, perché Dio, che è il misterioso garante della sua astuzia, lo aiuterà. Se un tintore sta preparando una grande tinozza di tintura gialla, è quasi inevitabile che Renart, spinto dalla curiosità e dal suo desiderio di avventura, ci finisca dentro. Si dibatte, sta per annegare, ma non si perde d’animo, e così parla al tintore: «Signore caro, non mi colpite! / Sono un animale del tuo mestiere, / e ti posso essere utile. / Sovente ci ho durato fatica / e ne so assai più di te. / Ancora credo di poterti insegnare / a mescolare la tintura con la cenere, / perché tu non sai come si fa». Il tintore, convinto di poter trarre vantaggio dai suoi consigli, lo tira fuori, ma Renart prestamente lo saluta e se ne va. Si imbatte in Isengrino il lupo, il suo nemico di sempre, che non lo riconosce, tutto tinto di giallo com’è, lo stordisce parlando un miscuglio franco-inglese e subito pensa come ingannarlo. Andranno insieme a casa di un ricco contadino, famoso come musicante, e gli ruberanno la preziosa viella, queste le intenzioni. Nella spedizione, compiuta in piena notte, al povero Isengrino, aggredito dai ferocissimi mastini del contadino, vengono strappati i coglioni. Renart se la dà a gambe, dopo essersi impadronito della viella, e diviene presto un esperto suonatore. «Renart suona la viella con grande trasporto, / finché arrivano alla sua tana. / Quando Renart vede abbandonato / il suo castello in rovina e deserto, / non vuole mutare espressione. / Qualsiasi cosa egli vada suonando / pensa in cuor suo, se sopravvive, / che ne piangerà chi ora se la ride».
Questa storia, Renart giullare, che mette ben in luce anche il periglioso compagnonaggio dell’astuto Renart e di Isengrino, si può leggere, con il testo a fronte, nella bella raccolta Le metamorfosi di Renart la volpe, a cura di Massimo Bonafin (Edizioni dell’Orso, pp. 425, € 30,00), che comprende anche Renart mago e Renart imperatore (tradotti da Sandra Gorla e da Mara Calloni). Nell’Introduzione Bonafin, che è uno dei maggiori interpreti delle storie renardiane, richiama i caratteri fondamentali del protagonista e delle varie situazioni narrative. Chi volesse saperne di più può leggere il suo Il comico, il sacro, l’osceno e altri nodi della letteratura medievale (eum – Edizioni Università di Macerata, pp. 243, € 16,00), che è in gran parte dedicato proprio a Renart. Bonafin privilegia un approccio antropologico, collegando così la volpe a una figura centrale del folklore: il briccone, il trickster, con la sua fenomenologia di ruoli, di inganni, di maschere.
È illuminante il confronto con il romanzo cortese, quale lo conosciamo con Chrétien de Troyes: a differenza di quella arturiana, la corte di re Nobile il leone è rappresentata come un luogo in cui i conflitti non si ricompongono, e talora si esasperano, facendo esplodere le contraddizioni del diritto feudale. All’astuto che conosce il corso del mondo e sa sfruttarlo rimane sempre aperta una via per eludere gli ordinamenti della società: nella conclusione dell’aventure il romanzo arturiano e il Roman de Renart si differenziano come fiaba e antifiaba. «Quel divenire, che consente all’eroe del romanzo cortese di percorrere l’itinerario avventuroso fino alla reintegrazione nella società ideale della Tavola Rotonda, diventando quello che era dall’inizio ma senza saperlo, manca invece nel mondo renardiano, i cui personaggi sono ancorati alla loro essenza in un modo che basta una sola circostanza a rivelarla». È l’incontro con Renart e con le sue trame che ne fa emergere la natura tipica: la ghiottoneria dell’orso per il miele, la voracità e la stupidità del lupo, la boria vanitosa del gallo, la codardia del leprotto.
Un’aria di famiglia collega invece Renart e Tristano: all’adulterio della volpe con la lupa Hersent corrisponde l’amore adultero di Tristano e Isotta, ambedue si muovono al confine dei codici etici fondamentali della società, mettendo in atto, vittoriosamente, meravigliose astuzie e fantasiosi travestimenti. L’epica animalesca medievale ha poi la sua cifra predominante – come provano le belle analisi della Confessione di Renart (branche 7) e dei Vespri di Tibert (branche 12), con cui si chiude il volume – nella parodia, nella satira religiosa, nel regime carnevalesco della follia, della corporeità, della creaturalità.
Tornando a Le metamorfosi di Renart la volpe, possiamo vedere come l’indole versatile, astuta e anche crudele del nostro personaggio, rappresentata con grande fantasia, riesca sempre ad avere la meglio. In Renart mago Renart è sottoposto a un duro e interminabile processo: Isengrino lo accusa per l’adulterio con Hersant, la sua sposa, Chantecler il gallo per aver ucciso e divorato dame Copee, la nobile gallina, Bruno l’orso per averlo tradito promettendogli del miele. Renart rischia di essere condannato, ma se la cava proponendosi come ambasciatore alla corte di un inesistente re Isoris, che offrirebbe sua figlia in sposa al re Nobile il leone. Lascia invece la Francia per Toledo, dove si impadronisce delle arti magiche. Ritornato in Francia, alla corte del re, lo delizia creando per magia gli animali più strani e anche una bella leonessa, che gli promette come sposa. Il re subito la corteggia, ma pretende, perversamente, che il suo sesso sia costruito più in su, lontano dalla fetida zona degli escrementi.
Nelle lunghe procedure dell’esperimento, condotto da Renart «per incantesimo», risulta necessario avere della pelle di cervo, una cresta rossa, un ciuffo di peli. I suggerimenti di Renart gli servono essenzialmente per vendicarsi dei suoi nemici: saranno così seviziati, uno dopo l’altro, Brichemer il cervo, Chantecler il gallo, e il povero Isengrino, che ha foltissimo pelo sul capo. È un episodio surreale e contro natura, più orrido che osceno, e anche il narratore è sconcertato: tra tuoni e fulmini, l’incantesimo si dissolve, e la leonessa sparisce.
Nell’ultima storia della silloge, Renart imperatore, la nostra volpe, in assenza di re Nobile il leone, impegnato in una guerra contro i pagani, arriva a usurpare il trono. Prima però c’è un’altra avventura, l’incontro con Drouin il passero: insieme gustano, amichevolmente, delle saporose ciliegie, ma improvvisamente Renart cambia registro e, con la scusa di curarli, ingoia nove passerotti. La pagherà cara, perché Drouin, per vendicarsi, assolda un mastino che aggredisce Renart e lo lascia come morto. Il nostro eroe – e gli accade innumerevoli volte – passa così da una sua beffa ben riuscita a momenti di pena e di grande pericolo. Sempre però si rialza, come se niente fosse, e riprende a vagabondare, instancabilmente, in cerca di nuove avventure: «Si immette sul cammino e nella via, / che era molto larga e ampia, / e se ne va cantando ad alta voce / una canzone tutta nuova / d’amore, che era molto gradevole. / Sul capo aveva una ghirlanda / e mostra grande gioia e grande allegria».