Deve dire qualcosa se gli anni ottanta, associati per proverbio al glamour e alla felice spoliticizzazione degli individui dopo il decennio dell’antagonismo, sono riassunti viceversa sia dal film di Lawrence Kasdan The big chill (1983) sia da poeti allora in via di formazione ma consapevoli di vivere in un’era glaciale rediviva: e basterebbe menzionare, fra gli esordi più cospicui, Concessione all’inverno (1985) di Fabio Pusterla, Il viale d’inverno (’89) di Francesco Scarabicchi e Residenze invernali (‘89) di Antonella Anedda.
È in ideale dialogo con tutti costoro un poeta, Remo Pagnanelli, che alla metà esatta del decennio pubblica Atelier d’inverno (introduzione di Roberto Galaverni, con una nota di Milo De Angelis, AnimaMundi edizioni, pp. 129, euro 15) che torna finalmente per le cure preziose di due poete di oggi quali Franca Mancinelli e Rossana Abis.

NATO A MACERATA nel ’55, breve e bruciante è la parabola di un ragazzo che si stoglie la vita a soli trentadue anni, il 22 novembre del 1987. Critico letterario raffinatissimo, collaboratore di riviste come Alfabeta e Otto/Novecento, firmatario di monografie su Vittorio Sereni e Franco Fortini oltre alle pagine poi riunite negli Studi critici (Mursia 1991), egli lascia quattro raccolte poetiche (dalla prima plaquette che ha un titolo programmatico, Dopo, del 1981, a L’orto botanico, del 1986) cui si aggiungono, postumi, i tardoadolescenziali ma bellissimi Epigrammi dell’inconsistenza (’92) e già a ridosso della sua scomparsa, con un titolo premonitorio, Preparativi per la villeggiatura.
Apprezzato da una cerchia elettiva di intenditori, in primo luogo dagli amici marchigiani (nella couche così assortita da costituire un caso nazionale in quegli anni Ottanta e qui bastino i nomi di Guido Garufi, Eugenio De Signoribus, Filippo Davoli, Umberto Piersanti, Gianni D’Elia oltre al già citato Scarabicchi), avvalorato da critici del rango di Daniela Marcheschi (studiosa benemerita che ne ha curato prima l’edizione complessiva de Le poesie – Il lavoro editoriale 2000 – poi la selezione antologica Quasi un consuntivo 1975-1987 – Donzelli ’17) nonché di Roberto Galaverni, che lo ha sempre annoverato fra le prime voci dei suoi coetanei, il ritorno di Atelier d’inverno conferma un’attenzione spiccata fra gli autori della generazione successiva come peraltro testimonia il bel contributo di Edoardo Manuel Salvioni, Non sognate di seguirmi nel mezzo delle fiaccole accessibile nel blog «Pangea».

Il fatto che la presente edizione di Atelier recuperi le varianti successive e sistematiche che Pagnanelli vi apportò nel gennaio del 1987 in vista di una adesione fra voce e parola scritta, fra suono e senso, non diminuisce la quota di intransitività di un segno che nasce dal corpo (un corpo/psiche in perpetua ricezione e vibrazione) e al corpo ritorna dopo una misteriosa e fulminea dinamica percettiva: «(Nel clivo di un’alba prolungata si forma/ la tua luce diversa, che altrimenti/ nemmeno saresti, ombra di quell’ombra)».
Dove o da dove parla la poesia di Remo Pagnanelli? Scrisse una volta che «l’unicità della scrittura immette e trasmette le pulsioni dell’inconscio», il che vuol dire che non è lecito discriminare fra alto e basso, fra dentro e fuori dell’espressione. Perciò il suo registro è in ogni caso duplice e così la sua dislocazione. Essa infatti sta dentro e fuori: da una parte c’è il paesaggio accidentato del qui-e-ora, dall’altra lo specchio ustorio di un mondo totalmente interiorizzato, prossimo alla afasia e al dolore puramente animale (escoriazioni non sanate, più o meno decifrabili patimenti).

È UNA DIALETTICA che si ripropone nel dominio retorico perché da un lato la poesia prende corpo nel linguaggio del cerimoniale poetico, cui non sono estranee né le scienze umane (e la linguistica in primo luogo) né la psicoanalisi nel suo caso di impronta lacaniana, ma dall’altro la voce sembra provenire o anzi germinare proprio sulla cute, affiorare dalle più riposte secrezioni. La poesia di Pagnanelli è politica nella misura in cui la sua voce, che sembra in tal caso conquistata ab origine, è il nome stesso dell’esperienza, di un’eco che al presente ritorna moltiplicata a oltranza. Perché Pagnanelli e con lui alcuni coetanei sono consapevoli di scrivere, di dire «io», dentro un paesaggio affollato e tuttavia ammutolito dalla violenza atonale del sottofondo, accecato dalle luci stroboscopiche: nota Galaverni che l’inverno è «la metafora più appropriata di una situazione storico-esistenziale e psicologica caratterizzata dalla sfiducia nella possibilità dell’azione e di un cambiamento»: in proposito si veda, del ’95, il toccante documentario di Lucilio Santoni pure disponibile in internet ed eloquentemente intitolato Noxia corpori. Sedici spunti da Remo Pagnanelli. E lo spessore di una simile poesia nasce proprio nel rifiuto degli esclusivi ambiti che la calamità dei tempi, al crepuscolo del Novecento, sembrerebbe assegnarle senza mercé, dunque o la proiezione orfica ed ereditaria del Grande stile secolare o la sua più o meno efferata parodia di taglio avanguardistico.

IL POETA SCRIVE con integrale consapevolezza di sé e del frangente che gli è dato: «al posto di un’increspatura di false onde e schiene subalterne/ (enjambements clinici fatti di sottocoperte,/ la tua stella si è scompostamente spenta,/ sommersa sulle gaggie da muffe sottocorticali,/ conficcata in un silenzio liquido». Se non è affatto invecchiata, e anzi torna oggi con un vigore che può anche spiazzare i lettori di allora, è proprio perché la poesia di Remo Pagnanelli è innanzitutto una «esperienza» e cioè un corpo a corpo con la realtà imminente, tangibile, una conoscenza di sé e del mondo che letteralmente avviene in corpore vili, sulla viva pelle. Il tutto ridotto ad un esemplare inverno, dice un verso di questo libro essenziale.

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SCHEDA. Versificando insieme all’amico Guido Garufi sul principio degli anni ottanta

Sul principio degli anni ottanta, capitava di incontrare a Macerata, al tavolo di un bar sotto i portici di Piazza della Libertà, Remo Pagnanelli in compagnia dell’amico di sempre. Costui era quasi il suo antipode psicofisico perché era alto, sdutto, i capelli foltissimi e sempre sorridente dietro gli occhiali di celluloide. Insieme redigevano una rivista, «Verso» (coagulo fra poeti marchigiani allora giovanissimi e maestri quali Mario Luzi e Vittorio Sereni) e insieme dibattevano si può dire giorno e notte sulla poesia. Perché anche l’amico, Guido Garufi, era un poeta di nitida e raffinata ispirazione, come testimonia una bibliografia di oramai mezzo secolo (da «Hortus», sorprendente esordio del 1981 fino al dolentissimo «Fratelli», del 2016) oggi riunita in un unico volume, «Non esiliarti. Poesie 1972-2022» (Arcipelago Itaca, pp. 155, 18.00), con un risvolto, e forse è la sua pagina estrema, di Giampiero Neri. Libera da ogni maquillage, costantemente tenuta sul piano della conversazione (autentica parola chiave e insieme risorsa ermeneutica) la poesia di Garufi sonda nell’acustica della vita quotidiana, ne riceve le ridondanze e le cadute per metabolizzarle e per converso farne dei motti sapienziali, dei talismani salvifici e talora dei jeux de mots di penetrante e costernata ironia. E c’è vicino a lui non solo l’ombra ma il ricordo vivo di Remo, la presenza sua costante di interlocutore, come si legge in una clausola di «Conversazione presunta» (1989): «Entrano lunghe ombre/ e altre ombre di te/ e di te nessuna traccia». Va aggiunto che erano due poeti del tutto isolati in una città bigotta, codina, e che nessuno saprà mai se è di Remo Pagnanelli o di Guido Garufi la definizione di Macerata come la più vasta necropoli del Piceno. (ma. ra.)