Con la traduzione di Teofania Lo spirito della religione greca antica di Walter F. Otto, a cura di Giampiero Moretti (Adelphi «Piccola Biblioteca», pp. 184, e 15,00), viene rimessa a disposizione del lettore – dopo l’edizione del Nuovo Melangolo, 1996 – un’opera meno conosciuta, eppure fondamentale, del filologo di Hechingen. Per il pubblico italiano infatti Otto è in primo luogo l’autore di Götter der Griechenlands, edito per la prima volta nel 1929 e tradotto sempre da Adelphi nel 2004 con il titolo Gli dèi della Grecia: una pietra miliare per gli studi relativi alle credenze religiose del mondo classico.
La figura storica di Walter Otto rappresenta un emblematico esempio di intellettuale resistente, su cui si abbatterono gli eventi drammatici che segnarono la Germania degli anni trenta e quaranta del secolo scorso. Nel 1934 egli fu costretto dal regime nazista a sostituire Paul Maas, rimosso per le sue ascendenze ebraiche dalla sua cattedra a Königsberg. La difficile sopportazione degli oppressivi Diktate hitleriani si interruppe nel 1940, quando Otto, nell’introduzione del secondo volume della rivista Geistige Überlieferung, da lui moderata insieme a Karl Reinhardt ed Ernesto Grassi, espresse le sue preoccupazioni per il futuro degli studi classici nel clima politico della Germania dell’epoca. L’intervento censorio del regime segnò l’inizio di uno stato di necessità, che culminò con la fuga avventurosa di Otto da Königsberg all’inizio del ’45. Ma già in precedenza lo studioso era stato oggetto dell’occhiuta sorveglianza del regime, per la sua vicinanza a circoli rei di coltivare una sorta di umanesimo liberale incompatibile con il nazifascismo, circoli a cui era appartenuto, fra l’altro, un teologo dissidente come Paul Tillich.
Theophania, apparso per la prima volta nel 1956, due anni prima della morte dell’autore, integra l’opera principale di Otto sugli dèi greci, fornendo un’analisi antropologica del rapporto, o forse sarebbe meglio dire dell’incontro, fra l’uomo greco e il divino. La dimensione esperienziale, concreta, profondamente vissuta, di tale incontro è presupposta nell’opera più ampia e più nota del 1929, ma rimane parzialmente in ombra. Teofania si pose quindi, nel panorama dell’opera dello studioso, come un atto dovuto di chiarificazione.
Al tempo in cui Otto pose mano a questa chiarificazione, si rese necessaria una presa di distanza dai diversi orientamenti che campeggiavano negli studi classici in tema di approccio a quelle che allora si chiamavano, genericamente, le religioni «mitiche», ovvero i politeismi, tenuti distinti dalle religioni rivelate da profeti identificabili, grosso modo, come figure storiche. Su tale definizione pesa, ovviamente, un duplice pregiudizio: che le religioni «mitiche» siano fondate sull’affabulazione del primitivo, dunque in balia della natura e incapace di spiegarla; in secondo luogo, che esse siano in qualche maniera «false e bugiarde», sia nei rispetti delle illuminazioni mistiche delle religioni del libro, sia nei confronti della moderna tecnica. Nel milieu di fondo della cultura tedesca di primo Novecento, il pregiudizio positivistico e l’effetto subliminale del protestantesimo si integrano a costituire una prospettiva falsata dell’esperienza religiosa antica. Questa prospettiva falsata, questo «equivocare gli dèi», si viene declinando nei vari approcci metodologici che Otto respinge nella parte introduttiva dell’opera: che si tratti dell’animismo di capiscuola dell’etnologia come Tylor o Usener, o della riduzione magica della religiosità arcaica, o dell’interpretazione errata degli dèi come volontà latente nell’accadere dei fenomeni naturali, o ancora della riduzione onirica del mito, tipica della psicologia del profondo di Freud e Jung.
Nel prendere le distanze da questi riduzionismi, che travolgono in una tempesta perfetta di banalizzazioni sia la dimensione storica del rapporto dell’uomo antico con il sacro e il divino, sia l’autonomia della storia delle religioni come campo di indagine autonomo, Otto rimarca con estrema forza quello che sfugge a tutti i riduzionismi, dalla fioritura dei culti della vegetazione ai frammenti di interpretazioni oniriche, passando per i vetri rotti del positivismo: il fatto che l’esperienza del divino sia espressione dell’intero essere del mondo che si rivela in una singola manifestazione. La prima fonte di equivoci sulla religione dei greci, per Otto, è data dalla circostanza atipica per cui essi, considerati «i fondatori e i maestri della cultura… dell’Occidente, restino inascoltati proprio là dove si tratta della loro devozione religiosa» (p. 45): quest’ultima peraltro è centrale in tutti gli aspetti della loro esperienza estetica, e della stessa filosofia, che di quella devozione – anche nelle sue scuole più «laiche» come l’epicureismo – risente, non fosse che per contestarla o ridefinirla in orizzonti intellettuali liberatòri.
Sin dall’inizio, Otto pone in evidenza l’ambiguità del nostro atteggiamento e della nostra memoria culturale nei rispetti degli dèi dell’Ellade. In modo assai diverso dalla concezione del numinoso e del divino nel vicino oriente, l’Olimpo non si impone con alcuna rivelazione autoritativa, e non ne ha bisogno. Nella concezione religiosa dell’uomo greco, per Walter Otto, i suoi dèi testimoniano sé stessi come realtà in atto alla base di ogni essere e accadere, con quel caratteristico «spirito di celeste intangibilità e beatitudine silente che ancor oggi spira in maniera così lieta e libera» dalle loro figure, e nel contempo l’unico annuncio, l’unico kérygma, che di queste divinità si offre, è veicolato dalle Muse, nelle quali si realizza la sutura fra la dimensione normativa del sacro e il piacere della fruizione del bello. Essenziale nell’intelligenza della natura delle divinità olimpiche è la beatitudine derivante dalla mera certezza della loro presenza.
Attorno a questi pochi capisaldi, Teofania propone una teologia sub specie Graecitatis, non articolandola a partire da tematizzazioni di carattere metafisico, ma piuttosto rievocandola tramite una ricca rete di richiami alla poesia e all’arte figurativa antica e moderna. Questo aspetto dell’ultima piccola grande opera di Otto sulla religiosità politeistica antica è il connotato più appariscente di un saggio che più di altri si pone come una grande opera di poesia attraverso la prosa dell’indagine antropologica. Di questa sorta di argomentato giudizio riflettente, librato fra forze cosmiche e rappresentazioni artistiche e calzato sulla religiosità antica sono un riflesso, fra l’altro, anche i quattro dèi che Otto racconta più in dettaglio, Afrodite, Apollo, Atena e Dioniso. Nelle pagine di Otto gli dèi antichi sembrano riaffiorare, ma nello stesso tempo si offrono alla coscienza del lettore come presenze sfumate al di là dell’irrevocabile: una sensazione che appare tanto più marcata se si riflette su quanto gli dèi ritratti in Teofania, pur nei confini della pagina del saggio appaiano con maggior pienezza e autenticità rispetto ai tentativi più o meno convinti di ricostituzione contemporanea del paganesimo antico.
Così l’opera di Otto riesce nell’intento di «avvicinarsi alla comprensione della forma del divino quale si è rivelata ai Greci» (p. 161), dichiarazione e consuntivo dell’opera che giustamente pone a suggello del libro, nella sua postfazione, Giampiero Moretti, al quale si deve la traduzione del saggio di Otto in una prosa la cui eleganza restituisce al meglio l’impasto stilistico sorvegliato, da nuovo umanesimo, proprio delle pagine della grande filologia europea della prima metà del secolo scorso.