Gyalo Thondup è il fratello dell’attuale, il quattordicesimo, Dalai Lama. Anne F. Thurston è una sinologa piuttosto quotata, già autrice di un libro su Mao Zedong, nel quale aveva raccolto le memorie del medico personale del Timoniere. Proprio per questa sua passata esperienza editoriale, come spiega nella prefazione, è toccato a lei sistematizzare anche le memorie e i racconti orali di Thondup; ne è uscito un libro, The noodle maker of Kalimpong, the untold story of my struggle for Tibet (Pubblic Affair, 18 dollari) che racconta la storia di una difficile relazione politica, quella tra Cina e Tibet e la vita quotidiana nella regione cinese, prima, durante e dopo l’arrivo dell’Esercito popolare di Liberazione.

Thurston interviene nel libro anche in postfazione, preziosa guida per chi dubita di alcune delle «visioni della storia» enunciate dal protagonista del volume. Secondo il Wall Street Journal si tratta di «un titolo avvilente, per un libro affascinante». Le vicende di Thondup si mischiano, anzi diventano, quelle del Tibet del Novecento, i suoi rapporti con la Cina, l’India, la Cia, gli Usa e la comunità internazionale, durante quel percorso che ha visto identificare il fratello come il quattordicesimo Dalai Lama (bellissima la parte del volume dedicata ai «metodi» di selezione del Dalai Lama e alle guerre interne ai lama che si scatenano durante la «reggenza») fino alla sua fuga, al riconoscimento internazionale della causa tibetana, al Nobel in un anno particolare, il 1989 e ai tentativi di un suo ritorno a Lhasa.

Il volume si rivela uno straordinario documento storico, di parte naturalmente, ma scritto con grazie e fascino, proprio come suggerisce il Wsj e una brillante capacità di assecondare curiosità e visioni della storia, con uno stile asciutto ma straordinario nel suo procedere. Il volume offre diverse chiavi di lettura, tanto al lettore casuale e poco esperto di storia tibetana e cinese, quanto a quello più inserito in un discorso fatto di visioni storiche differenti, di omissioni o presunzioni. Il racconto del fratello del Dalai Lama, infatti, non è parziale per niente.

In primo luogo perché descrive uno scontro storico tra Cina e Tibet parteggiando apertamente (e ovviamente) per Lhasa, in secondo luogo perché Thondup è stato uno dei protagonisti della recente storia tibetana e nel libro finisce per dare «la sua versione». Talvolta le sue opinioni si scontrano con quelle dell’intellighenzia tibetana, contro la quale Thondup si riserva alcune «vendette» non da poco. La critica della dirigenza tibetana, che di fatto ha gestito cinquant’anni di storia della regione, è l’elemento più clamoroso di tutto il libro e conferma, per certi versi, le letture cinese di alcuni eventi. Il Tibet viene descritto come un luogo soffocato dal potere dei lama, dove solo i monaci studiano e dove il resto della popolazione vive nella fatica, nell’ignoranza e nella totale subalternità psicologica ed economica ai monaci e al Dalai Lama.

Un paese arretrato economicamente e tecnologicamente, completamente chiuso in se stesso, ignorante di tutto quanto accade fuori, perfino nei paesi più vicini e potenti, India e Cina. E proprio questa incapacità – spesso l’autore definisce naïf l’approccio tibetano alla politica e alla geopolitica – renderà complicata la vita di una regione stretta tra interessi ben più grandi.

C’è anche Taiwan del Generalissimo Chaing Kai-Shek, che prova a fare della battaglia tibetana una sorta di piede di porco per riaprire la Cina ai nazionalisti. C’è l’India che utilizza il Tibet per redimere i propri conti in sospeso con la Cina, finendo per ingigantire alcuni problemi, portando ad un conflitto territoriale Delhi e Pechino. E c’è naturalmente la Cina, la cui progressione e passaggio dal maoismo all’economia di mercato, porterà la propria presenza in Tibet a mutare, diventando infine vincente specie a livello internazionale, nonostante la fama che, per un certo periodo, ha potuto godere il Dalai Lama.

Detto che la sinologa che ha contribuito alla stesura della storia si è vista negare il visto da Pechino, secondo l’andazzo che chiunque sia sospettato di vicinanza o amicizia con il Dalai Lama diventa nemico del popolo cinese, il libro in realtà, si pone come una critica sia della Cina sia del Tibet.

Non sembra esente dai tanti torti storici enunciati nel saggio neanche la figura del Dalai Lama la cui distanza dagli affari temporali, in alcuni casi, sembra una scusa scolpita ad arte dal fratello per scaricarlo da responsabilità storiche. Thundop descrive minuziosamente alcuni momenti di frattura tra Cina e Tibet, proprio quando potevano essere messi insieme i cocci di un rapporto ormai deteriorato.

In quei casi, Thundop ondeggia sulle responsabilità del Dalai Lama, così come appare poco credibile la distanza di «Sua Santità» dalle operazioni coperte stabilite dalla Cia. Ed eccoli, gli Stati uniti, altra presenza formidabile e fondamentale nel libro. La Cia addestra la resistenza tibetana, in quel periodo che va dal deteriorarsi dei rapporti tra Cina e Tibet, fino alla fuga in India del Dalai Lama (fuga che per altro è pervasa da incomprensioni anche con l’allora premier indiano Nehru).
La Cia sbaglia tutto, dice Thundop. Addestra ma poi non manda armi, manda armi ma sono vecchie, quando sono nuove, non sono americane, proprio per non dare l’idea di invischiarsi con i tibetani, ovvero con la Cina. E, infine, c’è la lettura degli scontri del 1987 e di quelli a Pechino del 1989, che corrisponde in pieno alle paranoie di Pechino. In questo frangente c’è forse la parte più originale di tutto il libro.

Secondo il fratello del Dalai Lama, tanto i riots in Tibet, quanto quelli cinesi, furono orchestrati da non si sa bene quali potenze straniere. Un pensiero che trova la sua esemplificazione in un dialogo riportato da Thundop. Si tratta di uno scambio di battute con Deng Xiaoping, che stando alle parole di Thundop sembrava davvero desideroso di un ritorno del Dalai Lama in Cina.
«Noi siamo tibetani – spiega Thundop a Deng – non odiamo i cinesi. Noi odiamo gli stranieri», chiosa.