Al telefono la voce corre velicissima: «Riesce a seguirmi?» ripete spesso prima di ripartire a mitraglietta con le parole, fermarsi appena un secondo, dire qualcosa al figlio, ricominciare col racconto del suo lavoro. Ma la parola, meglio se «differita», è la materia che nutre la ricerca di Vincent Thomasset, oggi uno degli autori e registi di teatro nelle nuove generazioni più amati in Francia. Quarantenne, in scena con Pascal Ramberttra il 2002 e il 2007, formazione coreografica da Mathilde Monnier, arriva per la prima volta in Italia, alla Biennale Teatro di Venezia diretta da Antonio Latella – che si inaugura il 20 luglio fino al 5 agosto – con tre spettacoli (più una conversazione), Médail décor (2014) parte di una trilogia dal titolo Serendipity (che comprende Sus a la bibliotheque e Protragronistes); Lettres de non-motivation (2015); Ensemble Ensemble (2017) che sono anche tre passaggi chiave in una ricerca il cui obiettivo appare quello di riconfigurare la lingua sulla scena.

I suoi sono dispositivi teorici destabilizzanti che mescolano ricordi personali, pop culture, narrazioni per esplorare i modi di utilizzare l’oralità, dai più banali a più raffinati. E questo sin dai primi lavori come Bodies in the Cellar, versione live del film di Frank Capra Arsenico e vecchi merletti, in cui la dissociazione tra corpo e voce passava per la figura di Cary Grant interpretato dal danzatore Lorenzo De Angelis, complice prediletto di Thomasset nelle sue messinscene, mentre la voce al microfono era del ventriloquo Jonathan Capdevielle.

Infanzia nel Drome,dodici anni di equitazione, studi letterari a Grenoble fino alla scoperta della scena come luogo in cui riprendere la parola e donargli una fisicità. È anche il racconto che attraversa Medail décor, dal nome del negozio di suo nonno, in cui Thomasset ripercorre la propria biografia (ma sempre a distanza, le apparenze, come dice lui stesso ingannano), l’infanzia a Valencia (dove è nato nel 1974), i ricordi infelici delle colonie estive, i lavoretti come quello al BHV di Parigi, il teatro – a cui arriva grazie a una fidanzata.

Lettres de non-motivation, rappresenta un cambiamento, per la prima volta infatti Thomasset non lavora su un proprio testo ma prende spunto da quello dell’artista Julien Prévieux che dal 2003 ha risposto alle offerte di lavoro sui giornali, accuratamente ritagliate, con delle lettere d nelle quali invece del curriculum invia delle «non-candidature» invitando i responsabili a bere un aperitivo o proponendo passeggiate in campagna.
I toni sono scanzonati e ironici, le repliche delle società talvolta interdette. In scena le lettere vengono proiettate sul fondo, quasi come un décor, mentre gli attori scelti anche loro con delle inserzioni, si muovono nello spazio quasi vuoto. Ensemble Ensemble, indaga invece il tema del doppio seguendo le tracce di una donna che cerca di definire ciò che la circonda. «Fare teatro per me significa anche mettere in questione un ordine stabilito, muovere i codici che definiscono le relazioni tra la gente e il modo di rappresentarsi di una generazione» dice.

Sul catalogo della Biennale Teatro lei scrive di non avere maestri ma di essere stato influenzato da Thomas Bernhard, affascinato da Lucinda Childs, Philipp Glass, Bob Wilson.
In realtà per me tutto è cominciato quando avevo dodici anni e ho preso di nascosto un libro nella biblioteca dei miei genitori. Faceva parte delle letture «proibite», si intitolava L’inferno di Treblinka di Vasiliji Grossman (Adelphi) e mi ha fatto capire con grande precisione come si poteva far credere che un campo di concentramento fosse qualcos’altro, ingannando all’arrivo i deportati… È da lì che mi è rimasta la necessità di indagare il confine tra vero e verosimile e soprattutto di trovare altre forme con cui rendere la parola come il corpo, la danza, il gesto. Insieme a Lorenzo De Angelis abbiamo provato a interrogare la parola, la realtà, l’immaginario. E poi come spettatore ero un po’ stanco che a teatro si parlasse di «cose», volevo provare a farlo ma senza parlarne. Mi interessava cambiare le forme dall’interno, sperimentare molteplici possibilità della rappresentazione. È quello che accade in Médail, décor.

Che poi si basa sulla sua autobiografia…
In realtà fino a un certo punto, molte cose sono romanzate, appartengono alla mia infanzia alcuni luoghi, le vacanze in colonia, mentre altri testi prendono spunto altrove. La scommessa era ricostruire un’identità, e crederci, partire dal reale per poi addentrarsi in zone fittizie che è il solo modo che rende possibile di arrivare a una verità. Il meccanismo è reso anche dal principio di raddoppiamento della messinscena con due persone, il performer e l’autore-narratore, e dal lavoro sul corpo dell’attore. La dissociazione tra corpo e parola apre lo spazio a una vera libertà.

In «Lettres de non-motivation» ha scelto invece di lavorare su un testo non suo, e su un tema, il mercato del lavoro, che appare centrale nel mondo contemporaneo.
Ci sono diverse ragioni, Julien Prévieux è un artista e mi piace mettere in dialogo il teatro con l’arte ma soprattutto mi interessava la possibilità che offre il testo di Prévieux di affrontare dei «grandi temi» lontano da quell’approccio che spesso ne caratterizza il discorso artistico. Qui infatti il «tema« diviene gesto, scrittura in senso ampio, e permette un gioco appassionante a partire dall’eterogeneità dei materiali scritti e parlati che esprimono anche un’indagine sul linguaggio. Eterogenei sono pure gli interpreti, attrici e attori con esperienze diverse, una cosa nuova per me che avevo sempre lavorato con danzatori. Nonostante queste lettere non siano state scritte per la scena, racchiudono tutto ciò che costituisce il teatro. A partire dal concetto di lavoro si oppongono ai rapporti di forza che lo caratterizzano, ai vincoli che impone per superarli.

La scrittura, la parola sono sempre il punto di partenza.
Ho subito integrato la danza nella scrittura cercando di comprendere come inscrivere sul palcoscenico la parola insieme al corpo. Ho una passione per il linguaggio letterario e per questo cerco di superare la dicotomia tra ciò di cui si parla e i grandi discorsi , l’attore e il testo. In Ensemble Ensemble seguiamo una donna tra differenti solitudini, i suoi tentativi di avere un contatto con l’altro senza riuscirci. Ci sono elementi autobiografici, e la storia a cui mi riferisco è reale, qualche anno fa avevo trovato per caso i diari di una donna. Ho cominciato a fare delle ricerche, forse era una scrittrice. Poi sono capitato su un programma di France Culture con lei in studio e ho finalmente dato a quegli scritti una voce, un nome. Lavoro con attori e danzatori, ancora una volta la voce si «dissocia» dai corpi, possiamo essere dentro una follia o semplicemente nell’indifferenza del nostro tempo, per questo è fondamentale mantenere sempre lo spazio aperto.