Reiner Stach, le opere e gli affetti di Kafka, evitando trappole esegetiche
Se un giorno dovessimo dubitare della letteratura, e se le opere tanto amate ci apparissero esauste, vane, come un nulla, allora resterebbe comunque Kafka. Non già a offrire conforto o magari certezza, perché la sua scrittura discende dal dubbio; ma perché dalle sue pagine proviene una forza che non ha eguali. Nessuno, con le sue prose (tutt’altro che numerose) e la sua vita (tutt’altro che avvincente), riesce a valicare allo stesso modo gli scarti tra epoche e culture, generando di continuo altri testi e altre opere: che si tratti di commenti o romanzi, di lungometraggi o brevi video, di partiture liriche o canzoni, di fumetti o videogiochi, è tutto un brulicare di postille, riscritture, trasposizioni, omaggi, allusioni. Una discendenza affollata, che spesso appare degenere, e anche nei suoi esempi più nobili rischierebbe il ridicolo se solo osasse tentare di avvicinarsi al nitido splendore della scrittura kafkiana. Si limita a testimoniarne, a debita distanza, la potenza.
In questa incessante produzione spicca la grandiosa biografia che Reiner Stach andò pubblicando in tre volumi tra il 2002 e il 2014. Destinata a restare il testo fondamentale per chi voglia conoscere la vita di Kafka, è ora disponibile anche in italiano, grazie al Saggiatore e alle cure di Mauro Nervi.
Al volume dedicato agli anni giovanili, uscito all’inizio di quest’anno (ne ha parlato su «Alias D», il 25 febbraio, Luca Crescenzi), fanno ora seguito, a distanza di un mese l’uno dall’altro, gli altri due libri: Gli anni delle decisioni, che fu il primo a uscire in originale e riguarda il periodo tra il 1910 e il 1915 (Il Saggiatore «La Cultura», pp. 760, € 45,00), e Gli anni della consapevolezza, che segue le vicende dell’autore fino alla morte, nel 1924 (Il Saggiatore «La Cultura», pp. 800, € 46,00).
Non sono soltanto le dimensioni, che nel complesso oltrepassano le duemila pagine, e l’accuratezza delle ricerche che l’hanno resa possibile, a fare occupare a questa biografia un posto d’eccezione. Lo stesso Stach ha offerto in fondo un esempio delle sue minuziose ricerche anche nella raccolta di «novantanove reperti» biografici titolata Questo è Kafka? (Adelphi 2016). Ma solo in questa più ampia trilogia la documentazione è tessuta dentro una trama narrativa al contempo sobria e trascinante. Stach sembra quasi fornire una dichiarazione di poetica quando – ricordando en passant uno dei numerosi testi che hanno provato a integrare i documenti con l’esercizio romanzesco della fantasia – osserva come un simile intervento sia «precluso al biografo», non solo per ovvie questioni di metodo, ma anche per una sorta di inadeguatezza estetica, perché «nemmeno la fantasia più vivace potrà mai saziare davvero, finché non riesca a sostenersi con qualche documento». Dietro l’ovvia critica a un impiego troppo disinvolto della fantasia si intravede, per converso, la determinazione a fare uso dell’immaginazione, seppur in modo misurato e tanto più convincente: quasi a dire che nemmeno la documentazione più esaustiva potrà mai risultare appagante finché non riesca a collocarsi nel flusso di un racconto.
Stach esercita spesso una forma di sovranità autoriale, saldamente legittimata dalle sue conoscenze, riarrangiando le testimonianze all’interno di notevoli sequenze narrative, per esempio là dove descrive, con andamento degno di uno scrittore ottocentesco, le ore in cui per la prima volta si affacciò l’idea della Metamorfosi, nell’autunno del 1912: «Kafka stava sdraiato sulla schiena, lasciando vagare lo sguardo sui muri e il soffitto. Faceva freddo, e da fuori si infiltrava una luce novembrina torbida e grigia, come succedeva ormai da giorni. Sulla finestra, gocce di rugiada». Simili momenti, intrecciati all’attenta ricostruzione del contesto sociale e politico, danno vita a un racconto di plastica efficacia, che permette a Stach di rendere appassionante una vicenda biografica ricostruita già molte volte, priva di avventure appariscenti, trascorsa per lo più orbitando attorno a una città che, pur con i suoi fermenti culturali, era guardata con sufficienza dagli abitanti dalle grandi metropoli di lingua tedesca: se agli occhi della berlinese Felice Bauer, come ci ricorda Stach, Praga poteva apparire popolata di persone «divertenti e meravigliosamente provinciali», allo sguardo meno benevolo del viennese Karl Kraus la città sembrava un’inesauribile riserva di poetastri che «si moltiplicavano come pantegane».
La presenza di Kafka nel contesto culturale praghese Kafka fu comunque intermittente, e diviene pressoché inevitabile pensare che vi sia un nesso tra lo splendore dell’opera e questa condizione di spettatore clandestino, al margine e al riparo dai grandi rivolgimenti storici e dai clamori intellettuali di quella stagione tanto movimentata. Ma Stach si guarda bene dall’avanzare simili speculazioni interpretative. La sua cautela ermeneutica risalta tanto più fortemente nel momento in cui descrive gli anni della maturità di Kafka e davanti alla pur dettagliata descrizione dei suoi rapporti con l’ebraismo, viene da ripensare con ammirazione e nostalgia allo studio con cui Giuliano Baioni, giusto quarant’anni fa, proponeva in Letteratura e ebraismo, la sua splendida lettura dell’opera di Kafka. Proprio la presenza di questo e di molti altri autorevoli tentativi di interpretazione deve avere indotto Stach a frenare le ambizioni esegetiche. Pur tenendo conto delle interpretazioni che si sono succedute nel corso del tempo, pur offrendone talora un’eco, Stach preferisce presentare i dati concreti raccolti in decenni di ricerche. Ne esce un ritratto biografico che, di contro al cliché dell’«uomo particolarmente inaccessibile, spiacevole e insoddisfatto della vita», consente di riconoscere i tratti una persona dotata di un singolare talento per i rapporti umani. Nonostante tutto ciò che Kafka sacrificò alla scrittura, non c’è figura di autore novecentesco in grado di suscitare altrettanta simpatia in chi lo incontrò, dai colleghi di lavoro e agli amici più stretti, fino alle donne che lo amarono, meritoriamente restituiste da Stach alla loro autonoma esistenza, liberate dallo stereotipo che le vuole essere state mere proiezioni di Kafka. Stach mostra come un simile pregiudizio, assai diffuso soprattutto nel caso di Felice, sia frutto di una «trappola ermeneutica» in cui sarebbero caduti molti interpreti: dal momento che le lettere di Felice sono andate perdute, essi vedrebbero nell’epistolario «esclusivamente l’aspetto proiettivo, e trascurano il fatto che lo stesso Kafka ha cercato di smontare questo meccanismo», con la sua «sete insaziabile di dettagli concreti della vita di Felice».
Quanto all’opera, non poteva che restare qui libera da ogni insistenza interpretativa, se è vero che la sua vita è sempre postuma, come sostiene Kafka in una lettera a Milena: «la vera vita autonoma del libro comincia dopo la morte dell’uomo», quando esso può «fare affidamento solo sulla forza del proprio battito cardiaco». Forse non immaginava che questa forza, nel caso dei suoi libri, aumentasse tanto nel corso del tempo.
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