Parlare di Body of Evidence (prove), tema della 14/a edizione di Cortona On the The Move, ideato e prodotto dall’Associazione culturale Onthemove, diretto da Veronica Nicolardi con Paolo Woods e il collettivo Kublaiklan responsabile della curatela fotografica (fino al 3 novembre), vuol dire anche intercettare le storie dei pazienti dell’ospedale di chirurgia ricostruttiva di Medici Senza Frontiere ad Amman in Giordania. Per farlo, Msf e il festival fotografico toscano, con la partnership tecnica di Polaroid, hanno collaborato coinvolgendo la fotoreporter egiziana Rehab Eldalil (1989, vive e lavora al Cairo), vincitrice di premi quali il World Press Photo Regional Award 2022. From the Ashes, I Rose (dalle ceneri sono rinato) è il progetto fotografico presentato a Palazzo Baldelli, a Cortona in cui Eldalil è testimone del dramma delle vittime civili di violenza e conflitti (stando ai dati delle Nazioni Unite e di Action on Armed Violence rappresentano il 90% delle vittime totali in tempo di guerra), ma soprattutto del loro desiderio e della forza nel riappropriarsi delle proprie vite.

Come si è posta emotivamente rispetto a un progetto così intenso?
Quando Msf e Cortona on The Move mi hanno affidato questo lavoro le sfide erano molte. Per prima cosa dovevo essere sicura che la mia presenza nell’ospedale non avesse un’influenza negativa sui pazienti. Una sfida enorme che avevo affrontato prima ancora di recarmi in quel luogo: ci sono regole da seguire per proteggere l’identità e la sfera privata dei pazienti. Entrare in contatto con il dipartimento di salute mentale mi ha permesso di capire quello che era possibile fare e ciò che, invece, avrebbe potuto innescare problematiche nei degenti, considerando che la maggior parte di loro proveniva da esperienze traumatiche. La mia presenza e il mio lavoro non avrebbero dovuto avere nessun impatto sul loro processo di guarigione.

Quanti giorni ha lavorato nell’ospedale di Msf ad Amman?
Sulla carta avrebbero dovuto essere dieci giorni, ma di fatto sono rimasta solo sette giorni. Ho lavorato intensamente. Lasciavo la mia stanza d’albergo alle 6 del mattino e rientravo alle sei o alle sette di sera. I primi due giorni, più che fotografare, ero focalizzata sul guadagnarmi la fiducia dei pazienti approfondendone la conoscenza. La produzione stessa del lavoro non è costituita da un gran numero di scatti, perché avevo prima di tutto bisogno di mettermi alla prova come essere umano. Bisogna considerare anche che la maggior parte delle ferite riportate dai pazienti non erano state prodotte tanto dal conflitto in sé, quanto da un congegno meccanico, come è anche la mia macchina fotografica. Sì, c’è voluta fiducia. Ma la cosa bella è che il progetto è iniziato con cinque pazienti e si è concluso con diciannove e certamente se fossi rimasta di più ce ne sarebbero stati molti altri. Andando in ospedale tutti i giorni, loro stessi hanno cominciato a capire chi ero e a chiedermi di poter entrare a far parte del progetto stesso. È stato un lavoro fortemente collaborativo, come è sempre nella mia pratica.

In mostra sono esposte anche delle polaroid su cui sono intervenuti creativamente gli stessi pazienti, sia con la scrittura che con le perline colorate. Ha utilizzato questa fotocamera istantanea per facilitare il dialogo?
In realtà, le polaroid sono state l’ultimo gradino: facevano parte della mia attrezzatura che è arrivata solo durante il mio ultimo giorno in ospedale. Solitamente, tengo laboratori con sessioni fotografiche «casuali» in cui s’instaura una collaborazione con i partecipanti di cui il mio scatto è solo parte del processo. Ho mostrato quelle foto ai degenti e quando si è creata la complicità li ho invitati a partecipare con diversi materiali.

Quanto è stato difficile tenere a bada le emozioni?
Sono almeno tredici anni che lavoro in questo campo fotografando la comunità, posso dire di aver trovato un mio modo di lavorare per contenere l’aspetto emotivo. Una componente che però può affiorare, soprattutto quando trascorro molto tempo con i protagonisti del progetto. Devo essere sicura di poter tirare fuori l’aspetto positivo, ma certo sono un essere umano e anch’io provo sentimenti. In questo specifico progetto era importante che ponessi la componente emotiva a servizio di quella educativa e informativa per rendere il pubblico consapevole dei tantissimi eventi violenti che succedono, principalmente nel sud est asiatico e in nord Africa, onorando le storie dei pazienti che sono stati così aperti con me. Ma confesso che è stata dura perché sono anch’io una madre e la maggior parte dei protagonisti di questo progetto sono bambini. Del resto mostrare anche la mia parte emotiva è stato importante: lo sguardo del fotografo non è mai neutrale.

C’è una storia che l’ha toccata maggiormente di altre?
Onestamente tutte le storie mi hanno toccata profondamente, ma a spezzarmi il cuore sono state soprattutto quelle delle famiglie palestinesi che erano arrivate prima del genocidio e che non possono più tornare a casa. Storie come quella di Sama che è qui con la madre Nevin, ha 13 anni ed è rimasta ustionata con l’acqua bollente nella sua casa a Gaza; doveva essere dimessa a febbraio ma è ancora in ospedale perché non può rientrare nella sua città. Un’altra storia è quella di Sahar e del figlio Hassan di 5 anni. Anche lui aveva delle ustioni di acqua bollente ai piedi e, per stare con lui, la mamma ha dovuto lasciare in Palestina un’altra figlia, una bambina di pochi mesi e ora non ha alcun contatto con lei. Questo è il tipo di storie in cui, al di là delle ferite fisiche che sono guarite, c’è ancora tanto dolore.