Nel grande palcoscenico dell’esistenza siamo tutti viaggiatori: i percorsi delle nostre vite disegnano arabeschi che, aggrovigliandosi e intrecciandosi tra loro, mutano continuamente forma, velocità e traiettoria, rendendo impossibile prevederne la destinazione. Questa, in sintesi, è la filosofia che governa la trama e la struttura dell’ambizioso debutto della scrittrice afroamericana Regina Porter, I viaggiatori (traduzione di Norman Gobetti, Einaudi, pp. 328, € 20,00) che rivisita l’antichissimo topos letterario del viaggio come metafora della vita, declinandolo attraverso l’America degli ultimi sessant’anni.

Nel ripercorrere le vicissitudini intergenerazionali di quattro famiglie americane – due bianche e due nere – che si muovono dentro e fuori i confini degli Stati Uniti – dalla Georgia al New Hampshire, da New York al Tennessee, con sconfinamenti in Europa e in Vietnam – la narrazione rimbalza avanti e indietro nel tempo tra il secondo dopoguerra e i primi anni della presidenza Obama, assecondando una logica interna dettata a volte dal flusso di coscienza dei personaggi, altre volte dai loro incontri e dai legami che stringono. Tuttavia, a interessare l’autrice sono soprattutto gli spostamenti interiori, l’evoluzione e lo sviluppo delle coscienze, perché, come afferma uno dei personaggi, «Tutto quel che può essere fatto è già stato fatto. La cosa migliore che possiamo fare è reimmaginare il nostro percorso attraverso l’esperienza».

Famiglie disfunzionali
Leggendo il romanzo si ha la sensazione di sfogliare un album di ricordi – sensazione alimentata anche dalle fotografie e dalle date poste in apertura di ogni capitolo, che permettono di contestualizzare gli eventi narrati in un determinato periodo storico. I capitoli scorrono come una serie di istantanee, tappe di altrettanti percorsi generazionali che si sovrappongono a episodi e periodi particolarmente significativi della storia della nazione. A chi le ha chiesto perché abbia scritto un romanzo di questo tipo proprio oggi, l’autrice ha detto: «Perché ieri non abbiamo finito la conversazione. In quanto nazione, stiamo ancora portando avanti versioni differenti delle stesse conversazioni che facevamo prima della Guerra civile». Regina Porter ha spiegato anche come le voci dei numerosi personaggi (la lista iniziale delle dramatis personae, lunga due pagine, dovrebbe aiutare il lettore a orientarsi) traggano ispirazione soprattutto dai lunghi pomeriggi trascorsi da bambina nel salotto della casa natale di Savannah, in Georgia, ad ascoltare i racconti del variopinto entourage degli amici dei genitori – storie di figli ribelli e genitori intransigenti, di carriere brillanti e disastrosi fallimenti spesso legati a soprusi e discriminazioni razziali e sessuali, storie di famiglie disfunzionali scosse da traumi profondi e divise da episodi di violenza, che di frequente hanno origine da pregiudizi e disuguaglianze sociali.

Storie come quella del soldato afroamericano Eddie Christie, il quale, esasperato dalle angherie razziste subite dai superiori mentre presta servizio in Marina durante la Guerra in Vietnam, finisce per macchiarsi di un terribile delitto che lo tormenterà per il resto della vita. Tornato a casa, si scopre ossessionato dal dramma di Tom Stoppard Rosencrantz e Guildenstern sono morti (aveva rubato d’impulso il libro a un ufficiale durante una licenza), e ne recita di continuo le battute alle figlie Claudia e Beverly. I fantasmi dei due gentiluomini elisabettiani – che nell’Amleto vengono convocati a corte da re Claudio per sondare l’animo del principe danese, ma che finiscono per diventare vittime incolpevoli di una macchinazione più grande di loro – appaiono costantemente a Eddie sulle pareti di casa, impedendogli di dimenticare il crimine compiuto sotto le armi e rammentandogli l’assurdità dell’esistenza. La storia di Eddie funge in un certo senso da metafora portante dell’intero romanzo: la tragicommedia di Stoppard, a sua volta ispirata all’Amleto shakespeariano, condiziona a tal punto la vita di Eddie che le sue letture ossessive influenzeranno il futuro della figlia Claudia, destinata a diventare una studiosa di Shakespeare e a sposare Rufus Vincent, bianco benestante che per ripicca contro il padre avvocato ha scelto di perseguire la carriera accademica in ambito letterario specializzandosi nella narrativa di Joyce. Tra le forze che influenzano e dirigono il percorso della vita, la letteratura gioca un ruolo non così secondario come si potrebbe pensare.

Una trama disgregata in segmenti
Il riferimento a Rosencrantz e Guildenstern sono morti rende anche esplicito il limite di un romanzo-mondo ben congegnato ma non pienamente riuscito, limite che sta nella scarsa naturalezza della caratterizzazione dei personaggi e delle loro storie, mentre il controllo autoriale rischia di diventare asfissiante. I componenti delle quattro famiglie finiscono per risultare eccessivamente polarizzati – bianchi e neri, ricchi e poveri, giovani e adulti – e in certi momenti ricordano pedine che si spostano su caselle di un’ipotetica scacchiera, ognuno impossibilitato a compiere movimenti diversi da quelli prefigurati per il proprio «character».

Come i gentiluomini di Stoppard, a volte i personaggi dei Viaggiatori sembrano attori inconsapevoli di un dramma che si svolge intorno a loro ma di cui non riescono a comprendere fino in fondo la natura, e perciò si limitano a entrare e uscire di scena recitando il copione che la vita – o in questo caso l’autrice – ha assegnato loro. Non stupisce apprendere che, prima di lavorare al romanzo, Regina Porter ha collaborato con diverse compagnie teatrali in veste di drammaturga: i ritmi che impartisce alla narrazione sono impeccabili, così come il suo orecchio per i dialoghi, capace di mettere a nudo con estrema efficacia i pensieri, le paure e le idiosincrasie dei singoli personaggi; ma se ogni capitolo funziona bene come racconto a sé, il romanzo nel suo complesso si disgrega in una serie di segmenti in cui il lettore fatica a orientarsi, come se Porter intendesse ricordarci che le nostre vite sono proprio il risultato di narrazioni incomplete e spesso incoerenti – quelle che raccontiamo a noi stessi e quelle in cui ci racchiudono gli altri.