Non serviva quel «da» anteposto nel titolo al nome dell’autore per immaginare che la Bérénice inscenata da Romeo Castellucci in forma di monologo per Isabelle Huppert non era, non poteva essere la rappresentazione fedele del capolavoro di Jean Racine. Mettiamo in conto di conoscere l’infelice storia dell’amore fra la regina della Palestina e l’imperatore romano Tito, costretto a cedere alla ragion di stato. Il teatro di Castellucci ha spesso lambito i grandi testi, da Eschilo a Shakespeare, ma sempre insinuandosi nei loro spazi di oscurità. Se mai di una lotta con il linguaggio si tratta. Lotta alla pari. Lo dice la presenza dell’attrice francese che a teatro ha dato prove memorabili, tornano in mente il raggelato Quartett di Heiner Müller o ancora più lontano nel tempo un fascinoso Orlando, in cui l’aveva coinvolta Robert Wilson.

ALTRO È OVVIAMENTE il mondo di Romeo Castellucci rispetto alle immobili prospettive del regista texano. Qui domina un’atmosfera nebbiosa che si dilata in tutta la sala della Triennale di Milano, quasi a dare concretezza semantica all’acronimo che dà il titolo al festival FOG. Alti panneggi avvolgono tutt’intorno lo spazio ma non lo definiscono, scossi dalle tracce sonore impresse da Scott Gibbons. Lei emerge un poco alla volta dal fondo, in una sorta di lenta assolvenza che rivela i contorni del lungo abito che fa un po’ regina delle fiabe. In primo piano, di profilo, la scultura di un gatto nero si offre alla percussione di un martelletto, forse allusiva all’antica dea egizia Bastet. Ma non bisogna affannarsi troppo a rincorrere significati nascosti, meglio lasciare avvolte nel velo del loro enigma le immagini. Come il termosifone che funge da simulacro dell’imperatore o la lavatrice dall’oblò aperto, da cui esce un lungo drappo macchiato di sangue.

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Que dites-vous? Ah! ciel! esclama. Si rivolge ad Antioco, l’uomo che segretamente l’ama e ora vuol fuggire via da lei. Ma non attende risposte, o meglio le conosce troppo bene. Ciò che conta è solo ripetere la propria parte. I versi di Racine rimbalzano come disincarnati in questo mondo di fantasmi, esseri effimeri come ci appaiono nei sogni. Come se il teatro fosse uno spazio di frontiera che si apre fra la «vita» lasciata fuori dalla porta e il mondo di un aldilà che si spalanca all’aprirsi del sipario. Un mondo riflesso e di riflessi, dice lo specchio che si apre a libro, dove l’immagine dell’attrice sembra allontanarsi per conto suo.

DUE VOLTE il monologo si interrompe per lasciare spazio a presenze chiamate a dare corpo alle immagini oniriche che si affacciano dopo le parole. Sono due uomini alti e magri, ancora giovani. Forse le ombre degli assenti Tito e Antioco. L’uno nero con un mantello rosso, l’altro bianco che pure sarebbe un altro re ma danzando incorona il primo. Dopo tutto è diventato luttuoso. La donna si muove quasi ripiegata su di sé per urlare il proprio dolore. Ed ecco tornare i due giovani uomini, questa volta accompagnati da un coro di altri uomini costretti a denudarsi e a muoversi curvi cercando di reggere il peso di una enorme croce.
Si solleva il sottile diaframma che fin lì aveva velato la scena. Tutto ora è più chiaro. Lei veste di nuovo la sua regalità, di un colore rosso molto disegnato. Ma la parola è diventata balbettio. Viene in mente la poesia di Paul Celan. Se venisse un uomo che di questo tempo parlasse, dovrebbe solo balbettare e balbettare, continuamente. Siamo arrivati al fondo dello spettacolo. Non guardatemi, non guardatemi! urla Isabelle Huppert con tutta la forza che le resta e non è poca.