A cinque anni dal brutale assassinio di Giulio Regeni, dopo un anno di carcerazione di Patrick Zaki fra i sessantamila oppositori che languono nelle celle egiziane, cosa abbiamo capito delle speranze che hanno acceso il Mediterraneo e il mondo arabo nell’ultimo decennio?

Il quadro investigativo ricostruito dalla Procura di Roma è tale ormai che anche gli avvoltoi hanno smesso di volteggiare. Le insinuazioni sono evaporate alla luce dei fatti: a nessuno sfugge come parlare di Giulio oggi significhi parlare dei molti che ancora vengono fagocitati dalla repressione. Contrariamente alle aspettative del regime, la memoria di Giulio è più viva che mai: le scritte gialle riappaiono sulle facciate dei palazzi pubblici, e le istituzioni spendono parole senza ambiguità.

E tuttavia nulla si muove sul piano giudiziario. Ormai allo stremo, Patrick Zaki resta crudelmente esposto alla continua, reiterata conferma dei termini di detenzione, seguendo il copione che vuole nell’esibizione del potere di arbitrio la conferma della peggiore deriva autoritaria. Davanti alla richiesta della Procura di Roma e a dispetto delle testimonianze dirette, le autorità egiziane insistono sulla pista del rapimento criminale di Giulio: pur ammettendo che fosse sorvegliato, definiscono ‘falso e illogico’ che sia mai stato in mano alle polizie.

Eppure non tutto è immobile: poco prima della Festa della Polizia – quel 25 gennaio che coincise con l’inizio della rivoluzione – è giunta dal Cairo la notizia di un rimpasto interno agli apparati di sicurezza. Ad essere spostato è, fra gli altri, quel generale Tarek Saber che compare fra i quattro per cui la Procura romana chiede il processo.

L’opacità dei regimi militari rende impossibile farsi un’idea chiara dei motivi dietro le singole decisioni: è però evidente il fastidio che suscita l’attenzione internazionale, fastidio si nutre della predilezione che la dittatura mostra per quanto le consente di riprodursi – tritacarne della repressione incluso.

La figura di Saber, ad esempio, è associata anche alla decisione di arrestare i tre dirigenti di Egyptian Initiative for Personal Rights (EIPR), di fatto l’ultima realtà di difesa dei diritti umani rimasta, e con cui collaborava Zaki. L’opinione pubblica internazionale e le diplomazie si sono prontamente mobilitate.

È dunque plausibile che l’arresto sia parso un’inutile provocazione anche al Cairo. Nell’information age, il regime è infatti molto sensibile alla propria immagine quale baluardo di fermezza benevolente, che opera nel giusto contro la barbarie terrorista: cerca lusinghe e non tollera l’immagine di sé come golpista, nato con una carneficina e dedito alla repressione incivile. Si rasenta il parossismo: passa un minuto fra la notizia della scarcerazione dei tre dirigenti di EIPR con un ‘atto dall’alto’, e l’annuncio da parte dell’Eliseo del ricevimento di al-Sisi in pompa magna a Parigi, con tanto di imbarazzante conferimento della Legion d’Onore.

In Egitto è pressoché impossibile usare telecamere: piazza Tahrir oggi non può essere ripresa, ma l’architettura è stravolta, a significare un nuovo inizio. La dittatura ha bisogno delle nostre tv che decantano il nuovo museo archeologico auspicando un ritorno del turismo, e di energy companies nostrane che promuovono l’immagine dell’«Amico Egitto».

All’indomani del ritrovamento del corpo di Giulio, scrivevo con Marina Calculli (il manifesto, 10.2.2016) che avevamo davanti una catena di comando segnata da rivalità, ma che vede la propria sopravvivenza come coesione fondata su un patto di omertà e impunità: in assenza di terzietà, verità e giustizia sarebbero state proporzionali al solo grado di determinazione dell’azione italiana.

Ogni idea ispirata al tradizionale ‘cinismo di controllo’ realista avrebbe generato contraddizioni a cascata, sempre più insopportabili per l’interesse nazionale stesso. Molte voci si sono levate in questi anni a condannare come ipocrita la disgiunzione fra la pressante richiesta di cooperazione giudiziaria, e il business is business che guida la politica estera, incluso il boom delle forniture militari all’Egitto denunciato dai genitori di Giulio.

In realtà non è solo una questione commerciale: c’è un malaccorto bisogno dell’Italia di ‘contare nel Mediterraneo’, producendo ‘geopolitica mediterranea’ (Di Maio) in uno scenario di accresciuta competizione, sullo sfondo dello scontro fra il fronte pro-islamista (Turchia, Qatar) e quello autoritario-tradizionale (Egitto incluso) guidato dagli altri paesi del Golfo e appoggiato da parte dell’Occidente (Francia) e Russia.

È forse presto, oggi, per capire quanto reale sia il rapprochement fra Qatar e le altre monarchie del Golfo per decifrare l’impatto della politica estera trumpiana nella regione, o l’esito dello scontro fra Egitto ed Etiopia per le acque del Nilo.

A dieci anni dalle rivolte arabe è però possibile dire che dove i militari hanno infine preso il sopravvento (dall’Egitto all’Algeria, dal Mali al Sudan) la situazione è precaria, e resta più instabile di quanto molti vogliano credere. Il riacutizzarsi del conflitto sociale in Egitto è la prova che crediti sauditi e opere faraoniche non bastano in un paese sempre più lacerato, nel quale proprio i militari sono accusati di perseguire nient’altro che il proprio interesse economico.

È un errore strategico dare lo status quo per assodato. Il cambiamento sociale e politico era, in fondo, l’oggetto dello studio sul campo di Giulio: per quanto militari avvezzi a reclutare e reprimere potranno contenere, per esempio, le soggettività femminili scese in campo nell’ultimo decennio?

Un tetro sottobosco di informatori, spie e agenti di sicurezza non poté credere che Giulio fosse uno studente, per quanto scrupoloso, capace ed acuto gli deve essere apparso: ed è paradossalmente proprio per questa incapacità che possiamo credere che il regime sia in fondo condannato.

Le ‘primavere’ giunsero inaspettate, dopo che gli alleati occidentali avevano per decenni riempito i dittatori di turno di aiuti e prebende. Nella storia il cambiamento procede per dinamiche carsiche che non sono esaurite.

È grave che, alla luce di questo, manchi in Italia una visione strategica su come trattare con le dittature militari di cui si è circondata. Chi oggi, nel nome del realismo più trito, predica l’abbraccio calloso alle relazioni internazionali come eterna ripetizione, assenza di principio e cambiamento, mostra scarsa conoscenza della realtà e dei propri interessi.