Ingabbiati in una veste grafica sobria, bicolore, più o meno del formato di un quaderno di appunti, 16 referti di una malattia d’amore, più un epilogo, più un post scriptum, testimoniano, in questo recidivo differimento della parola fine, lo sforzo di far coincidere i confini del proprio mondo interiore con il dicibile: a scrivere è Dino Villatico, critico musicale di chiara fama, che affida a questa sua Ecografia di un congedo (Giuliano Ladolfi editore, pp. 94, euro 10,00) i ricordi dell’amato Martin, il ragazzo che aveva frequentato alla fine dei suoi vent’anni, e del quale aveva perso le tracce. Le ritrova, queste tracce, casualmente, digitandone il nome su Internet: Martin è morto, vent’anni prima, e questo è quanto.

Il processo di metabolizzazione del dolore detta a Villatico versi vibranti di commozione e gratitudine: tentativi di tradurre in dolorante consistenza quel corpo svanito nel nulla senza preavvisi, né notizie che ne certificassero la irredimibile assenza. Mentre Villatico scrive, forse una fotografia sullo schermo del computer gli richiama alla mente la voce dell’amico: «…tu che mi guardi e dici: Dino!». È una invocazione, ma quasi freme del carattere di un imperativo.

L’AUTORE, UN UMANISTA dei nostri giorni, l’orecchio raffinato da innumerevoli ascolti di passioni musicali, concede all’emozione di ribellarsi agli argini delle convenienze, mentre un crescendo di memorie disperate si deposita sulla pagina: «Tu non ci sei. Nemmeno/ c’è più quel me che allora ti parlava».
Nessuna scuola di nudo saprebbe istruire una altrettanta veemente rinuncia a ogni velatura simbolica: intemperante di ogni pudore, questa deposizione della sofferenza sulla pagina sembra inseguire la remota speranza che tradurla in segno, renderla leggibile, condivisa, tramandabile possa convertirla in qualcosa di meglio tollerato: versi di invettiva al destino intervallano lo sfogo consapevole di una persona ipercoltivata, capace di intonare con orecchio sicuro gli echi degli antichi maestri.
Quel che ora si sottrae al possibile, nemmeno allora si era del tutto realizzato: una parziale negazione era stata il baratto per rendere incorruttibile l’amore, nessuna consumazione come prezzo per scongiurarne la fine, e questo incompiuto, questo stato di potenza mai convertito in atto, ora accende il rammarico, mentre si consegna alla definitiva rinuncia.

LA NOMINAZIONE DEL DOLORE è cruda, «… addenta la mia memoria e tutto il mio presente», si affida agli esempi universali che vengono dalle darwiniane leggi di natura, al coro degli Argivi che ricorda come l’unica conoscenza per gli umani sia quella che si raggiunge nel dolore.
I referti procedono nella messa a punto di quanto è andato perduto, muovendosi tra ricordi dislocati nei luoghi condivisi con Martin – Roma, Berkeley, Boston, tra gli altri – e brutali ricongiungimenti con il presente. A ogni irruzione di un nuovo ricordo sulla scena del presente corrisponde un rinnovato sbandamento del pensiero, mentre l’esposizione dell’Io, prima di precipitare sulla pagina, porta notizie di remote pulsioni e di presenti, sofferte percezioni.

Il Referto 6 notifica la spedizione di una lettera a Helen, presumibilmente una amica comune di Dino e di Martin, il cui scopo è chiedere notizie di quella morte prematura, qualcosa da mettere tra sé e gli interrogativi sospesi: «Andate mie parole… Inseguo/ adesso con la fantasia il volo/ della lettera, sento il corpo sordo/ della carta sul fondo della buca…./ Solo tu puoi dirmi come, /e di che cosa, quel giorno a New York -/ ho paura, ne tremo, vedo quasi/ il suo corpo, mi chiama la sua voce – vent’anni fa, è morto Martin. Solo?». Una sequenza accorata di condizionali controfattuali marca il referto 11: «Se…se…se», prolungandosi in una variazione autocolpevolizzante nel Referto 12: «Avrei dovuto, pertinace, forse,/ le occasioni inseguirle, una per una,/ tutte quante, per ritrovarti: oppure…».

DA MOLTO TEMPO, quella presenza forse «non parlava più al cuore», ma il suo irredimibile passaggio al regno dei morti legittima echi che non si sospettavano ancora tanto cantanti; e a tratti quel bordeggiare il confine tra il dolore e il delirio detta a Villatico versi che richiamano le doloranti fantasie di Trakl: «Elis, se il merlo chiama da nere foreste, allora è il tuo tramonto». Così come la vita è cosa troppo seria, scrive Villatico, per affidarla a un traslato, anche i suoi versi si sottraggono a ogni pretesa di restituirne il senso, e aspettano solo quell’unica legittima condivisione che viene dall’essere letti.