Un sospiro di sollievo accompagna la decisione della Corte costituzionale che ha confermato gli election days del 20 e 21 settembre. Dunque vedremo, e sarà la prima volta, l’accorpamento del referendum costituzionale con il voto politico delle regionali e delle suppletive e amministrativo nei comuni. Festeggiano lo scampato pericolo i 5 Stelle, per il presidente della commissione affari costituzionali Giuseppe Brescia è addirittura «la prima sonora vittoria del fronte del sì».

L’argomento è eccessivo, perché quella della Consulta è una decisione sulla procedura che non interviene nel merito delle ragioni dei favorevoli o contrari al taglio dei parlamentari. Ma l’esultanza è sincera e rivelatrice. Infatti il Movimento 5 Stelle ha fortemente voluto l’abbinamento del referendum alle elezioni proprio per spingere il sì. Non che il no fosse favorito nei sondaggi, tutt’altro, ma i grillini capivano bene che una riforma costituzionale confermata da una striminzita minoranza di elettori non sarebbe stata una grande vittoria. Soprattutto ci tengono ad avere, la mattina del 22 settembre, un successo da festeggiare per coprire quello che prevedibilmente non sarà un buon risultato del Movimento alle regionali e comunali. Questa è la ragione degli election days (tra l’altro nella fretta hanno dimenticato di correggere la legge sul referendum che prevede per quella consultazione il voto solo di domenica) e non «l’interesse dei cittadini», le «ragioni sia economiche che sanitarie» che pure sottolinea il presidente Brescia. Mentre nel comunicato dei deputati 5 Stelle le ragioni economiche spariscono e resta «l’esclusivo interesse della salute pubblica», declinato però in una maniera singolare: «Evitare ai cittadini di dover ritornare alle urne in più occasioni, evitando l’inverno che è la stagione più a rischio per i contagi». Peccato che nel frattempo il governo abbia deciso di prorogare lo stato di emergenza, così stabilendo che si andrà a votare proprio in un periodo di massimo rischio.

In realtà è una decisione che stavolta non si può neanche formalmente addebitare al governo, visto che contrariamente a quanto previsto dalle leggi sulla convocazione delle elezioni e dei referendum, è stata la maggioranza parlamentare in sede di conversione del decreto 20 aprile 2020 ad accogliere la pressante richiesta dei 5 Stelle per gli election days. Si arriverà così al referendum senza che siano stati compiuti passi in avanti su alcuna delle misure di «riequilibrio» che il Pd e Leu avevano chiesto ai grillini quando hanno votato sì al taglio dei parlamentari nell’ultima deliberazione della camera. Ed è precisamente quello che fa notare un numero crescente di esponenti democratici, orientati verso il no al referendum. Ieri lo ha detto chiaramente Matteo Orfini, ex presidente del partito. «Ci fu garantito che il taglio sarebbe stato preceduto da una nuova legge elettorale proporzionale e accompagnato da modifiche costituzionali che garantissero che quel taglio non sfasciasse l’impianto costituzionale», ricorda il deputato. Che aggiunge: «Quegli impegni non si sono realizzati. E ora come se niente fosse votiamo lo stesso sì? Praticamente possiamo solo dire sì a ogni capriccio del M5s, anche se si tratta di distruggere la nostra democrazia?», chiede Orfini. E conclude: «Il Pd ritrovi lucidità e orgoglio. Tanti nostri iscritti ed elettori ci stanno chiedendo un sussulto di dignità». Non è il primo parlamentare e dirigente su questa linea, che non è quella di Zingaretti fermo nel chiedere almeno «un voto» sul testo di legge elettorale proporzionale, magari solo in commissione, come garanzia sufficiente per votare sì. Non ha dubbi invece Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato dem, per il quale il Pd non può cavarsela con un sostanziale disimpegno dal referendum: «Da oggi inizia il tempo della doverosa campagna riformista per il sì, per un ruolo rinnovato del parlamento a partire dalla breccia della riforma parziale del taglio dei parlamentari e per ulteriori riforme»