La Cassazione ha bocciato ieri il referendum sul taglio dei costi della politica e quelli sul lavoro depositati lo scorso 7 e 9 gennaio. L’ufficio competente li ha dichiarati, con votazione a maggioranza, inammissibili perché presentati dopo l’indizione dei comizi elettorali per le votazioni anticipate della scorsa primavera. Un motivo, quindi, esclusivamente tecnico. Il quesito “anticasta” per il taglio della diaria dei parlamentari era stato presentato da esponenti del movimento Unione Popolare (depositate più di un milione e trecentomila firme): si tratta dell’indennità che i parlamentari percepiscono, circa 3.000 euro al mese, per vivere a Roma. I due quesiti sul lavoro erano stati sostenuti dalla Fiom e da parte della Cgil, accanto a Idv e Sel. Il primo riguardava l’abrogazione delle modifiche all’articolo 18 introdotte con la riforma Fornero, il secondo la cancellazione dell’articolo 8 del decreto legge Sacconi che introduce la possibilità di derogare le norme dei contratti nazionali con accordi aziendali e territoriali (le firme raccolte rispettivamente 650 e 700 mila). Solo una minoranza di supremi giudici è stata del parere che la richiesta potesse essere presa in considerazione anche se coincideva con la crisi del governo Monti, l’impasse parlamentare e la campagna elettorale.
Dichiarato invece ammissibile il referendum sul taglio dei tribunali, chiesto da nove Consigli regionali per abrogare la riforma della geografia giudiziaria che ha tagliato mille palazzi di giustizia. Ora la parola passa alla Corte costituzionale per l’ulteriore vaglio. Il referendum contro la nuova geografia giudiziaria è il primo, nella storia repubblicana, che viene proposto attraverso l’iniziativa delle regioni. A promuoverlo Puglia, Calabria, Basilicata, Friuli, Piemonte, Abruzzo, Liguria, Campania e Marche.
La bocciatura dei referendum sul lavoro è stata una doccia fredda. Arturo Scotto di Sel ieri ha precisato che, al di là delle decisioni che verranno prese sulla possibilità di ripresentarli, i due testi sono stati depositati alla Camera e al Senato sotto forma di proposta di legge. «Prendo atto della decisione della Cassazione, ma il problema rimane per intero» è la replica di Gianni Rinaldini della Fiom. «Se dovremo raccogliere di nuovo le firme lo faremo – prosegue Andrea Amendola, dei metalmeccanici della Cgil – visto che altre soluzioni non ne abbiamo. Il Parlamento è troppo occupato a discutere di Berlusconi e della decadenza, dell’Imu, per il lavoro non c’è mai tempo. Per esempio non c’è tempo per discutere dell’articolo 8, quello che stabilisce che in Italia non c’è più certezza del diritto, visto che dei privati si possono mettere d’accorso per derogare alle norme generali». Battaglia dura anche per il ritorno alla versione dell’articolo 18 precedente alla riforma Fornero: «Una riforma che è completamente fallita – prosegue Amendola – Doveva favorire l’ingresso al lavoro e invece ha prodotto solo nuovo precarietà. Soprattutto è stata utilizzata nelle aziende per licenziare i dipendenti più sindacalizzati utilizzando il paravento della crisi. Il dato peggiore è che ha generato una giurisprudenza avversa al lavoratore, come ulteriore effetto collaterale e negativo della crisi economica». Pronto a fare ricorso il segretario del Prc Paolo Ferrero: «Si tratta di un vergognoso scippo di democrazia. È doveroso ricordare che noi chiedemmo a Napolitano di sciogliere le Camere all’inizio del 2013 mentre Napolitano le sciolse alla fine del 2012 proprio per impedire, con l’inizio del semestre bianco, la presentazione dei referendum».