Difendi il tuo mare! La campagna elettorale per il referendum antipetrolio del prossimo 17 aprile è stata avviata. L’ufficializzazione, ieri, alla Camera dei deputati da parte del Comitato delle Regioni referendarie, coordinate dal presidente del Consiglio regionale della Basilicata, Piero Lacorazza; del Comitato nazionale «Vota sì per dire no alle trivelle» e del coordinamento nazionale «No triv».

«Questo voto ha un significato politico importante – ha evidenziato il presidente del Consiglio regionale della Sardegna, Gianfranco Ganau – considerato che mette la parola fine alla possibilità di ritornare indietro sul rilascio di nuove autorizzazioni a piattaforme petrolifere in mare. Coinvolgeremo direttamente i territori, con la consapevolezza che i cittadini sono dalla nostra parte, per riaffermare diritti non negoziabili, come quello alla salute e alla difesa dell’ambiente. Le Regioni sono in campo da oggi per portare a casa il risultato».

«Gli italiani, tutti – ha sottolineato Enzo Di Salvatore, costituzionalista – saranno chiamati ad esprimersi in merito all’abrogazione della norma che consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia dal litorale senza limiti di tempo. Prima che il Parlamento introducesse tale norma, le autorizzazioni per estrarre avevano normalmente una durata di 30 anni (più altri 20, al massimo, di proroga). E questo ogni multinazionale lo sapeva al momento del rilascio dei permessi. Oggi non è più così: se una società petrolifera ha ottenuto una concessione nel 1996 può – in virtù di quella norma – estrarre fino a quando lo desideri. Se, invece, al referendum vincerà il “Sì”, l’azienda che ha ottenuto una concessione nel 1996 potrà tirare fuori greggio fino al 2026 e basta. Dopodiché quello specifico tratto di mare interessato dall’estrazione sarà libero per sempre. Di conseguenza, un’eventuale vittoria del “Sì” non farebbe perdere alcun posto di lavoro nell’immediato, ma solo progressivamente».

L’obiettivo della consultazione è chiaro e punta a che il divieto di estrazione entro le 12 miglia marine sia assoluto. Come la Corte costituzionale ha più volte precisato, il Parlamento non può successivamente modificare il risultato che si è avuto con il referendum, altrimenti lederebbe la volontà popolare. «Gli idrocarburi presenti nel nostro Paese – viene ancora spiegato – appartengono al patrimonio dello Stato, ma questo dà in concessione a società private – per lo più straniere – la possibilità di sfruttare i giacimenti. Significa che queste società divengono proprietarie di ciò che viene estratto e possono disporne come meglio credano. Allo Stato esse sono tenute a versare solo un importo corrispondente al 7% del valore della quantità di petrolio estratto o al 10% del valore della quantità di gas estratto, le cosiddette royalties. Ma non versano niente per le prime 50.000 tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di metri cubi di gas estratti ogni anno e godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo».

Il referendum sta avendo vita travagliata: è stato promosso da dieci consigli regionali (Abruzzo, Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna,Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) che hanno proposto sei quesiti sulla ricerca e l’estrazione degli idrocarburi nella Penisola. L’Abruzzo ha poi battuto in ritirata. A dicembre dello scorso anno il Governo ha emendato la Legge di stabilità e, a ragione di ciò, dopo averli precedentemente ammessi tutti, la Cassazione, l’8 gennaio, ha riesaminato i quesiti e ne ha dichiarato ammissibile solo uno, perché gli altri – ha sentenziato – sono stati recepiti e soddisfatti dalla Legge di stabilità.

A questo punto sei Regioni (Basilicata, Sardegna, Veneto, Liguria, Puglia e Campania) hanno deciso di presentare un conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale riguardo a due quesiti, tra quelli dichiarati decaduti, ossia il «piano delle aree» – strumento di pianificazione che prevede il coinvolgimento delle Regioni – e la durata dei titoli per la ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi liquidi e gassosi sulla terraferma. Il 9 marzo la Consulta esaminerà la faccenda: se accogliesse il ricorso, i due quesiti tornerebbero a essere validi e dovranno essere sottoposti agli elettori. «Urne aperte ovunque – è stato ricordato – e anche gli italiani all’estero potranno esprimersi».