Il problema è il referendum. Chi ci ha messo la testa al governo e nella maggioranza non lo nasconde, parlandone in privato. Del resto è evidente che se si dovessero chiudere le scuole solo per le elezioni regionali e comunali il 20 settembre, e non in tutta Italia per garantire a 46 milioni di elettori seggi vicino casa e in ambienti neutrali, il problema dello stop all’anno scolastico sarebbe assai contenuto. Limitato a cinque regioni e qualche comune. Al momento non è così, perché solo dopo aver spinto per gli election days il 20 e 21 settembre, il governo si è fermato a ragionare sull’anno scolastico che dovrebbe ripartire il 14 settembre per fermarsi appena qualche giorno dopo. E per quasi una settimana, visto che le aule dove ospitare i seggi vanno prima allestite e poi sanificate.

Nel caso in cui si votasse solo per le regionali e le amministrative, il problema dello stop obbligatorio alle lezioni riguarderebbe solo cinque regioni e 18 milioni di elettori, oltre a 1.100 comuni circa e 6,5 milioni di elettori che però in parte coincidono con quelli delle regionali. L’accoppiata il 20 settembre con il referendum confermativo, che ovviamente coinvolge tutti i cittadini residenti in Italia e anche 4,5 milioni di residenti all’estero, trasforma un problema affrontabile in un mezzo disastro.

Un’ipotesi alternativa c’è ed è quella di tenere il referendum confermativo in una data diversa, più avanti nell’autunno. Lo stesso decreto che consente gli election days per la prima volta allargati al referendum (sarà approvato a tappe forzate definitivamente dal senato giovedì) fissa la data ultima per la consultazione sulla riforma costituzionale al 22 novembre. È il governo che deve scegliere e ufficiosamente ha già scelto di tenere tutto assieme perché i 5 Stelle così vogliono. Contano infatti su una vittoria facile dei sì per nascondere un risultato prevedibilmente per loro non buono alle altre elezioni. Ma è una richiesta che apre molti problemi a cascata. Innanzitutto lo strappo con il comitato promotore del referendum, quello dei settanta senatori che hanno chiesto il referendum contro il taglio dei parlamentari e che si faranno sentire nel passaggio del decreto nell’aula di palazzo Madama. Conte ha ricevuto da loro ben due memorie e si era impegnato a riconsiderare la questione. Nel caso non lo facesse, come potere dello stato il comitato potrebbe presentare ricordo direttamente alla Corte costituzionale. C’è un precedente, sfavorevole al comitato, ma la Consulta ha comunque detto che il governo, anche se libero nella scelta delle date per il referendum, non può «determinare un’effettiva menomazione dell’esercizio del diritto di voto». Contro l’accorpamento saranno presentati dall’avvocato Besostri, con il sostegno del Comitato per il no, ricorsi in almeno undici tribunali ordinari a partire da lunedì prossimo a Milano. Anche l’Anpi ieri è intervenuta contro l’accorpamento referendum costituzionale- elezioni.

Il piano B potrebbe vedere l’accoppiamento del referendum non con il primo ma con il secondo turno delle elezioni, previsto dalla legge elettorale per la Toscana e in 146 comuni superiori ai 15mila abitanti. Si voterebbe allora in tutta Italia non prima del 4 ottobre, con le scuole già aperte da almeno tre settimane. Ci sarebbe più tempo per allestire sedi alternative: al Viminale immaginano che sarà difficile rinunciare a tutte le scuole ma che si potrà comunque approfittare di molte altre sedi alternative (sale comunali, edifici requisiti alla criminalità, caserme dismesse) per alleggerire la pressione sulle aule scolastiche. Chi ha sicuramente bisogno di più tempo sono i consolati all’estero, in molte nazioni ancora chiusi, che durante l’estate dovranno organizzare il voto di 2,5 milioni di italiani in Europa e 1,5 in sud America.
I 5 Stelle però al momento non intendono rinunciare al 20 settembre per il «loro» referendum. Anche se non sarà possibile evitare la chiusura delle scuole. Infatti il capo politico pro tempore Vito Crimi ieri ha detto di condividere l’ipotesi di allestire i seggi fuori dalle aule scolastiche. Ma, ha aggiunto, «non può essere un obbligo perché metterebbe i sindaci in una situazione difficile».