Benoit Hamon, che ha prevalso con ampio margine nelle primarie del Partito socialista francese per la candidatura all’Eliseo, e che guarda a una possibile alleanza rosso-rosso-verde, ha posto tra gli obiettivi centrali del suo programma il reddito di cittadinanza.

Seppure, nei tempi e nei modi della sua realizzazione, ha spesso oscillato dall’originaria impostazione universalistica e incondizionata a soluzioni più graduali e circoscritte, resta un segnale forte che, insieme al rifiuto della Loi Travail, ha saputo mobilitare una parte consistente dell’elettorato di sinistra, giovanile in particolare.

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Del reddito di cittadinanza esistono infinite varianti e interpretazioni nel corso di una storia assai lunga che ha attraversato movimenti e progetti politici antagonisti, del tutto antitetici alla tradizione liberale nella quale gli avversari del basic income, si sforzano insistentemente di rinchiuderlo. Ricordare che Milton Friedman proponesse, a suo modo, forme di distribuzione estranee al rapporto di lavoro, è altrettanto insignificante quanto sottolineare l’affezione dei fascismi per la piena occupazione.

Resta il fatto che a sinistra il reddito di cittadinanza (o di base) incontra molteplici resistenze, ideologiche prima ancora che contabili. Il che rende questa vittoria di Hamon tanto più significativa e probabilmente dovuta, oltre che alla presa di distanza dal neoliberismo, dall’aver incrociato la domanda dei tanti soggetti sociali esclusi dagli ammortizzatori sociali che la sinistra tradizionalmente difende e gelosamente amministra.

Ormai stufi di rincorrere la promessa della piena occupazione da cui tutto dovrebbe discendere. L’articolo di Laura Pennacchi, pubblicato su queste pagine domenica scorsa, ci offre un catalogo piuttosto completo di queste resistenze. Che spaziano dal costo finanziario del basic income al «valore etico» del lavoro, con immancabile citazione di papa Francesco il quale, facendo il suo mestiere, fa risiedere nell’ora et labora, l’essenza della persona. Quanto ai costi del reddito universale (che dovrebbe riassorbire altre forme di previdenza) esistono tanti calcoli quante ne sono le varianti.

Qui, non potendo entrare in questioni tecniche, basterà dire che nel mondo barbaramente diseguale descritto da Piketty, l’insufficienza delle risorse è un argomento generalmente piuttosto debole.

Vi sono due tendenze alle quali quanti coltivano la fede nella piena occupazione non danno risposta.

La prima è che l’automazione e la tecnologia sono, per loro essenza, votate al risparmio di lavoro, a ridurre cioè il dispendio di fatica umana nella produzione di ricchezza. Che questa potenzialità si rovesci in disoccupazione e miseria è una conseguenza dei rapporti sociali. Solo nei momenti di più feroce sfruttamento (come la prima rivoluzione industriale) moltiplicano lavoro, perlopiù ripetitivo, dequalificato e sottoposto a un rigido comando gerarchico.

Oppure, come nell’epoca digitale, lavoro gratuito più o meno inconsapevole. Veniamo così alla seconda tendenza, del tutto invisibile a quanti guardano al reddito di cittadinanza con gli occhiali appannati dei classici ammortizzatori sociali. Viviamo in una società nella quale gran parte delle attività che ne fanno la ricchezza e la qualità sociale non sono riconosciute come lavoro e non danno diritto ad alcuna forma di reddito.

L’inattività assoluta è una pura e semplice invenzione ideologica. Per dirla con una formula secca non è di disoccupazione, ma di «disretribuzione» che dovremmo parlare. Il rapporto tra lavoro e reddito è stato di fatto già reciso, ma non dal reddito garantito, bensì dal dilagare del lavoro gratuito. Tradurre in contratti di lavoro retribuiti e regolamentati, per non dire stabili, queste molteplici attività che formano il fitto tessuto della cooperazione sociale va, questo sì, ben oltre il più strenuo sforzo di fantasia.

Detto altrimenti, ci troviamo già in una situazione di piena occupazione, la quale si presenta appunto nelle forme del lavoro precario, intermittente e gratuito da cui trae alimento il cosiddetto «capitalismo estrattivo». In questa prospettiva il reddito di base non è che il trasferimento di una parte di questa ricchezza a coloro che effettivamente la producono e non un semplice ammortizzatore sociale.

Si tratta, insomma, di un obiettivo pienamente politico e anche di un relativo trasferimento di potere.

La garanzia di un reddito comporta infatti maggiore forza contrattuale e più ampi margini di libertà dalle pretese del dirigismo pubblico di stabilire l’ «utilità sociale» come da quelle dello sfruttamento privato. «Datori di lavoro» è una espressione che non consente equivoci di sorta, che si tratti dello stato o del padrone.

Esprime, infatti, il potere di stabilire se, come, quanto, quando e cosa «dare». Una prerogativa alla quale non si rinuncia certo facilmente. E con la quale il desiderio di autonomia di innumerevoli soggetti produttivi non può che entrare in rotta di collisione.