Lo aveva annunciato Flea più di un anno fa, il nuovo album dei Red Hot Chili Peppers è «super funky». Detto questo, dopo Californication ci eravamo abituati a un graduale ammorbidimento del rock (ormai pretestuoso), con inclinazioni sempre più sul versante pop. La buona notizia è che questa volta si sente un maggiore zampino del chitarrista Josh Klinghoffer, al suo secondo album dopo aver sostituito John Frusciante, che pare finalmente inserito nella band. The Getaway (Warner Bros, in negozio dal 17 giugno) è l’undicesimo album in studio della band di Los Angeles, a 5 anni da I’m with You. Sia chiaro, non entusiasma, compie il suo strano lavoro di far ballare e immalinconire allo stesso tempo, con tracce cupe e melodiche, scritto cioè da brave rockstar operaie.

Le classiche contaminazioni funky, hip hop e punte di heavy metal dei peperoncini sono troppo consolidate per evocare qualche vera sorpresa pure quando incalzano l’alternanza stilistica di generi e toni che ne hanno fatto una delle band più conosciute al mondo. La voce di Kiedies è fisica come sempre, quando canta sembra utilizzare ogni muscolo per guidare tutta la band, anche se sul finale appare quello che il singolo Dark Necessities (Oscure necessità) dava ad intendere: «Tell the world that I’m falling from the sky/Dark necessities are part of my design». Un senso di nera inquietudine.

Il brano Goodbye Angels è forse il più riuscito perché richiama i vecchi fasti con squisiti spezzoni quasi metal, l’incedere di basso e chitarra toglie il respiro, ma quando passiamo a Sick Love ci ricordiamo perché i Red Hot hanno venduto oltre 60milioni di dischi: il registro è quello del pop più orizzontale, una canzonetta noiosa come una colonna sonora insipida. Per fortuna è seguita da Go Robot, dove il funky con il tempo dato dal classico battito di mani, riesce a decollare verso un finale spaziale/psichedelico, così come Feasting On The Flowers, anima e cuore nel funky.

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In Detroit già le prime strofe ci spingono nel racconto dell città del Michigan devastata dalla crisi ma salvata dalla musica: «Find me in the suburbs and/The shadow of decay/Rolling rings of rubber and/The band begins to play». E poi Encore e The Hunter con cori, delicatezze e pianoforte, una scrittura intimistica che ci accompagna fino all’ultima traccia: Dream Of A Samurai, che lascia un sentimento finito, di chi a cinquant’anni ha capito come funziona la vita e butta in avanti le speranze con scariche di batteria. «A peaceful storm is never hectic/Her mellow voice that I could be within/ The uniform is anorexic/A jealous choice won’t win», come nelle chiusure di un concerto ben riuscito di una famosa band californiana con più di trent’anni di musica alle spalle.

Fossimo in tempo di pagelle, The Getaway si beccherebbe un 7, non certo per la meraviglia ma perché il suono prende la via di un lavoro (e ripetiamo lavoro, che però troppe volte sembra meccanico) ben fatto, molto attuale, legato al vecchio crossover dei RHCP eppure lineare e pulito. Insomma, meno sperimentazione ma più criterio. Se poi ci si aggiunge che grazie alla produzione di Danger Mouse, capace perfino di dosare tonalità blues, e al missaggio di Nigel Godrich, anche un Flea senza un paio di corde di basso e un Kiedis senza quelle vocali, il disco raggiungerebbe un 6 pieno. L’impressione è che fra qualche anno sarà difficile che le tracce di The Getaway possano distinguersi da quelle degli ultimi due album. Non resta che aspettarli al varco delle tre date italiane, l’8 a Bologna, il 10 e l’11 ottobre a Torino, dove, di quello siamo certi, non mancherà lo spettacolo.