«Penso che quando ci occuperemo della costruzione dell’Europa – che io considero il grande evento del nostro presente – più seriamente di quanto non facciano oggi gli uomini politici, ci accorgeremo che non possiamo costruire questa Europa senza pensare a quello che sono stati e che hanno portato la città antica e il mondo medievale. Sono, perciò, ottimista: ci saranno dei bei ritorni». Così si esprime nel suo Dialogo sulla storia con Jean-Pierre Vernant (Laterza, pp. 70, euro 14) Jacques Le Goff, inguaribile europeista: nel senso della visione e della costruzione del futuro, come scrive, nonché del recupero amorevole (attraverso lo studio) del proprio passato. A quest’opera di studio il grande storico francese ha dedicato la sua vita, e sebbene i suoi sogni ci paiano oggi, purtroppo, più lontani, è vero che la storiografia continua a darci segnali di quei «bei ritorni» dei quali scriveva. Molti libri recenti lo indicano chiaramente.

Partiamo da Le immagini e la storia (Cisam, pp. 326, euro 50) di Lucinia Speciale, un libro che potremmo far cominciare da un monumento: la Porta di Capua che Federico II fece costruire tra il 1234 e il 1239, due volte distrutta, unanimemente considerata fondamentale per comprendere l’evoluzione dello stile architettonico che culminerà in Castel del Monte, dunque oggetto di dibattito storiografico intenso. Ma il libro parte da molto più lontano, dalle prime realtà politiche autonome del Mezzogiorno italiano, i principati longobardi, passando per i Normanni, per poi arrivare all’età federiciana, all’ideologia imperiale della quale la Porta di Capua volle essere un manifesto. Ecco perché l’autrice intreccia sapientemente fonti scritte e analisi delle immagini o delle evidenze architettoniche, riportando al nostro presente un pezzo di storia d’Europa (inutile sottolineare, infatti, che la concezione dell’impero di Federico II andava ben oltre la storia dell’Italia meridionale) importante, qui valorizzato sia come «monumento» del passato, sia come patrimonio della nostra contemporaneità. Solo una casa editrice specializzata quale è il Cisam di Spoleto avrebbe potuto permettersi la stampa di un libro così ambizioso anche nella presentazione grafica, ricco di immagini essenziali per comprendere il discorso di Lucinia Speciale. Lo stesso Cisam che da qualche anno ha avviato la pubblicazione di una collana dedicata alla storia e ai beni culturali delle città italiane, partendo da molte considerate «minori», e che di recente ha visto l’uscita del bel volume su Brindisi (pp. 200, euro 15) scritto da Rosanna Alaggio.

Il rapporto fra testo e immagini è essenziale anche in un peculiare testo noto come «Codice Rustici», conservato attualmente nella biblioteca del Seminario Arcivescovile Maggiore di Firenze adiacente alla celebre chiesa detta del «Cestello» (Cistercium) nel quartiere di San Frediano in Oltrarno. Nel 1441, alla vigilia dei cinquant’anni, l’orafo fiorentino Marco di Bartolomeo Rustici decise di compiere un pellegrinaggio al Santo Sepolcro a Gerusalemme che lo portò ad attraversare l’Italia, poi il Mediterraneo, per giungere nella Città Santa. Il Codice si caratterizza per una sua singolare struttura. A un testo forse almeno in gran parte autografo dell’autore, disseminato di molteplici digressioni (al punto dal farlo somigliare di più a uno zibaldone enciclopedico che a un diario di viaggio-pellegrinaggio simile ai molti altri che conosciamo), si accompagnano belle tavole disegnate e colorate, sempre autografe, che illustrano però non la Terrasanta, bensì i principali edifici della Firenze del tempo. Il Codice Rustici è stato anzi finora celebre, e molto citato, per le illustrazioni, mentre il testo è stato pochissimo frequentato e citato dagli stessi studiosi del pellegrinaggio in Terrasanta e delle sue testimonianze.

Ma perché Firenze? Forse perché l’esperienza di Marco di Bartolomeo Rustici potrebbe aver corrisposto a un viaggio immaginato attraverso altri testi, più che realmente vissuto? Le opinioni non sono concordi; ma certamente il fine ultimo dell’autore è celebrare la sua Firenze come «vera Gerusalemme» in quanto città di pace e di giustizia. Il Rustici fece il suo viaggio in Terrasanta e in Egitto (o data quel viaggio, se interamente immaginario) tra il 1441 e il 1442: esattamente nei medesimi mesi nei quali si teneva in Santa Maria Novella il concilio di Firenze, ultima fase di quel lungo e tormentato concilio di Basilea-Ferrara-Firenze destinato causare un breve scisma nella Chiesa cattolica e a concludersi con l’effimera unione tra le Chiese greca e latina; un concilio nel quale si discuteva anche dell’assedio turco a Costantinopoli: ossia delle grandi questioni che turbavano la Cristianità del tempo.

L’editore fiorentino Olschki ne ha pubblicato di recente il facsimile (Codice Rustici. Dimostrazione dell’andata o viaggio al Santo Sepolcro e al monte Sinai di Marco di Bartolomeo Rustici, a cura di Elena Gurrieri, 2 voll, pp. 568 e 320, euro 2.200), accompagnato da un secondo volume di studi: opera pregiata tanto per la qualità della riproduzione, quanto per quella dell’apparato critico e analitico, destinata (dato il prezzo) a collezionisti e biblioteche (private). Auspichiamo quindi che in un secondo momento l’editore voglia almeno pubblicare in una versione più accessibile il volume di studi, data l’importanza del testo e dell’intera operazione.

Se il rapporto tra scrittura e immagine, così come l’afflato religioso del pellegrinaggio sono temi cari alla tradizione storiografica francese della quale Le Goff è stato caposaldo, ancor più lo si può affermare per la storia che un tempo si sarebbe detta «delle mentalità», e che oggi (non senza cambiamenti e riflessioni sullo statuto di tali ambiti della ricerca) si preferisce definire «storia culturale»: una storia dalla profonda matrice antropologica, con addentellati filosofici e letterari, che spesso prende in considerazione fenomeni che un tempo non sarebbero stati nemmeno immaginabili quali oggetti di studio; è il caso dei sentimenti, delle passioni, degli affetti, ai quali è dedicato il bel volume di Carla Casagrande e Silvana Vecchio, Passioni dell’anima. Teorie e usi degli affetti nella cultura medievale (Sismel/Edizioni del Galluzzo, pp. 438, euro 50).

Nel sentire comune, le passioni sono spesso giudicate atemporali, naturali più che culturali. Ma così non è: il medioevo, ad esempio, ha vissuto un cambiamento, quasi una spaccatura rispetto al mondo antico, legando l’interpretazione della dimensione affettiva all’avvento del Cristianesimo, con il Dio che si incarna e salva l’umanità attraverso la sua stessa Passione. Gli autori che Casagrande e Vecchio prendono in considerazione sono prima quelli fra tardoantico e altomedioevo, dunque Agostino, Cassiano, Gregorio Magno. Si passa poi al pieno medioevo con teologi e filosofi come Abelardo, Gugliemo d’Alvernia, ovviamente Tommaso d’Aquino; ma anche con «volgarizzatori», come il predicatore Domenico Cavalca, in grado di mostrare il passaggio del sistema classificatorio realizzato dagli autori dotti al tessuto sociale. Perché, sottolinea il libro, il fine ultimo è la costruzione di una pedagogia degli affetti, che attraverso l’uso correttamente orientato delle passioni (gioia, dolore, timore, speranza, odio, desiderio, ira, vergogna) punta alla realizzazione del bene ultimo e della vera felicità dell’individuo e della società.