«Per l’Italia si tratta di voltare pagina rispetto al passato». Questo si legge nelle prime pagine della bozza del recovery plan del Governo italiano, che traccia le linee guida degli interventi da 200 miliardi di euro che verranno messi in campo per dare attuazione al programma «Next Generation EU». Se c’è però un tema rispetto a cui sicuramente non si volterà pagina – e, forse, non si farà nemmeno un percettibile passo in avanti – è quello della condizione di disagio abitativo di milioni di persone.

Ma andiamo con ordine. Il punto di partenza è che il sistema di assistenza pubblica alla casa in Italia, che si materializza quasi esclusivamente nell’apparato di edilizia economica e popolare, è rovinoso sotto molti punti di vista. Lo è, innanzitutto, sotto il profilo quantitativo. Il patrimonio abitativo pubblico disponibile è sufficiente a soddisfare solo un terzo del reale fabbisogno, con centinaia di migliaia di famiglie in lista d’attesa da anni (e, talvolta, da decenni).

Ciò è l’esito di un cronico disimpegno pubblico, che ha fatto sì che, in Italia, solo poco più del 4% dello stock residenziale sia oggi costituito da edilizia pubblica o convenzionata (contro il 37,7% dell’Olanda e il 20% dell’Austria). I nudi dati, da soli, non bastano però a descrivere la gravità della condizione dell’edilizia pubblica in Italia: la qualità delle abitazioni è in molti casi infima (come testimoniano i 10.000 appartamenti indisponibili a causa delle proprie disastrose condizioni fisiche); infimo è anche il contesto di molti quartieri di edilizia pubblica – luoghi periferici, monofunzionali, che concentrano disagio sociale e povertà.

In questo quadro di strutturale inadeguatezza dell’intervento pubblico nel contesto di una crisi abitativa grave già prima della pandemia – e destinata a degenerare nei prossimi mesi – l’attuale governo non ha fatto nulla. Né alcunché intende fare, come testimoniato dal fatto che nel recovery plan italiano non è previsto alcun significativo intervento in tema di edilizia pubblica. È vero, l’edilizia pubblica è menzionata un paio di volte. Per esempio, a un certo punto del testo del recovery plan si dichiara che «sono previsti investimenti per ampliare l’offerta di edilizia residenziale pubblica e di alloggi a canone calmierato». Si tratta però di una dichiarazione generica, non circostanziata, en passant all’interno del capitolo (a cui è dedicato solo il 2% delle risorse) su svariate questioni di vulnerabilità, inclusione sociale, sport e terzo settore.

L’edilizia pubblica viene menzionata anche nell’ambito del più corposo programma di riqualificazione energetica degli edifici, che assorbe circa il 20% delle risorse del piano. Ma una parte rilevante (probabilmente maggioritaria) delle risorse di questo capitolo sarà drenata dalla proroga del «superbonus 110%» per interventi di efficienza energetica su immobili privati. Inoltre l’asserita riqualificazione energetica degli edifici pubblici riguarda una pletora di stabili (dagli ospedali alle scuole ai tribunali), di modo che poco spazio sembra restare al patrimonio di edilizia economica e popolare.

Eppure l’occasione è ghiotta. Riqualificare e rilanciare l’edilizia pubblica è un intervento in grado al contempo di stimolare l’economia e fornire risposta a un problema sociale urgente e diffuso. Su questo sfondo, sarebbe ragionevole che le ingentissime risorse che si prevede di destinare alla ristrutturazione degli immobili privati tramite la proroga del «superbonus 110%» siano dirottare sulla riqualificazione dell’edilizia economica e popolare. L’effetto in termini di rilancio economico sarebbe analogo, ma incommensurabilmente superiore sarebbe il beneficio sociale. Questa ragionevole ipotesi è tuttavia solo una pia illusione, visto che ciò impedirebbe alle forze politiche di ammiccare, ancora una volta, al segmento – amplissimo ed elettoralmente pesantissimo – dei proprietari di casa in Italia (che costituiscono la quasi interezza della classe media).

Il dramma è che si sta per perdere un’occasione più unica che rara. Nel campo dell’edilizia pubblica, per voltare veramente pagina non bastano interventi sporadici e raffazzonati. Serve un’azione organica e di ampia portata economica, come quella possibile nell’ambito del Recovery plan. Ma ciò non sembra destinato ad avvenire. E il futuro, che all’esaurimento del piano di rilancio post-pandemico farà probabilmente seguire il ritorno a una nuova austerità, non offrirà una seconda opportunità.

* dell’Università degli studi di Torino