La proposta per il Recovery Fund avanzata ieri dalla Commissione europea – superiore per dimensioni finanziarie a quella franco-tedesca, che nei contenuti aveva segnato una svolta rispetto alle posizioni storiche della Germania – lascia intendere un cambiamento significativo rispetto alla visione economica e politica finora dominante nella costruzione europea.

Sembra di essere di fronte ad un altro «effetto collaterale», questa volta positivo, del Covid-19 che pare stia rapidamente accrescendo nella classe dirigente dell’Unione europea la consapevolezza della necessità di una inversione di rotta rispetto alla visione che finora ha giocato negativamente nel processo unitario.

Finora è stata La Bce, una istituzione tecnocratica e non politicamente rappresentativa, ad effettuare le scelte di politica economica più concrete per fronteggiare la crisi del 2008 e, adesso, quella innescata dal Coronavirus, tenendo conto delle esigenze unitarie dell’Ue.

La Bce, acquistando titoli pubblici (per un valore arrivato a 2200 miliardi di euro, pari a circa il 15% del Pil dell’eurozona) in ragione dei bisogni di ciascun paese e accettando come garanzia per i prestiti anche titoli con basso rating, sta aiutando più incisivamente i governi, facilitandone il ricorso al debito, riducendone l’onere e favorendo non solo la solidarietà interna all’Ue, ma anche la sua solidità economica e il suo processo unitario.

Con il Recovery Fund, adesso anche la Commissione propone di intervenire erogando 500 miliardi di euro a fondo perduto, con criteri distributivi tra i Paesi legati alle loro specifiche necessità e non alla loro quota di partecipazione al bilancio europeo.

Si aggiungono prestiti per 250 miliardi a condizioni che dovrebbero essere convenienti (bisognerà leggere i «dettagli» della decisione finale).

Al momento sappiamo che la Commissione finanzierà l’intero piano sia prendendo a prestito sui mercati con obbligazioni a lungo termine (con scadenze fino al 2058), a tassi più vantaggiosi di quanto potrebbe un singolo Paese, sia ampliando il Bilancio Europeo con nuove entrate tributarie proprie che ridurrebbero l’onere dei singoli Paesi per il suo finanziamento.

L’Italia dovrebbe avere 82 miliardi in sovvenzioni (cifra che dovrebbe superare di almeno 30 miliardi il contributo italiano al bilancio comune) e 91 miliardi in prestiti che dovranno essere spesi in conformità agli obiettivi del Semestre europeo peraltro già discussi con il nostro Paese.

Il dibattito che si svilupperà sulla proposta della Commissione registrerà anche le resistenze dei Paesi «frugali» che, però, sono diventati orfani della Germania; in ogni caso la discussione muoverà da un punto di partenza più avanzato rispetto alle discussioni fatte fino a prima della pandemia.

Tuttavia, senza cadere nella trappola degli stucchevoli e inconcludenti benaltrismi, nella dibattito europeo sulla Corona-crisi si dovrebbe anche tener conto che i suoi effetti non potranno essere contrastati solo e tanto a livello finanziario.

Naturalmente l’offerta di liquidità in questa fase è molto utile e non sarà affatto indifferente se sarà più o meno elevata e rapida, con restituzione più o meno differita e a tassi più o meno convenienti.

Gli interventi pubblici saranno ancora più espansivi se avranno anche un finanziamento monetario (più o meno mascherato) dalla Bce.

Ma nemmeno la politica monetaria più accomodante potrà, da sola, sopperire ai problemi dell’economia reale i cui equilibri e la cui dinamica sono incrinati da entrambi i lati, dell’offerta e della domanda. Il superamento della crisi da Covid-19 – che si innesta in quella esplosa nel 2007-2008 e nei precedenti squilibri generati dai modelli economici, sociali e politici neoliberisti affermatisi negli anni ‘80 – richiede un cambio di paradigma.

Diventa inutile dare liquidità alle imprese, anche riducendo le sue imposte, se esse non riescono a vendere i propri prodotti per carenza di domanda.

Ma le stesse condizioni d’offerta sono problematiche se non si risolvono le fragilità dei sistemi produttivi come quelle generate dalla combinazione tra la frammentazione e la delocalizzazione produttiva affermatesi negli anni della globalizzazione non governata e i nuovi squilibri geopolitici accompagnati da politiche protezionistiche.

La crisi potrebbe sfociare anche in nuove coesistenze tra stagnazione (o recessione) e inflazione (stag-flazione/ reces-flazione).

Per affrontare efficacemente questi scompensi strutturali occorre una capacità di coordinamento dei mercati che può venire solo con il contributo di istituzioni adeguate per capacità e dimensioni.

In Europa, la Corona-crisi sta facendo maturare l’importanza di procedere in modo efficace nella costruzione unitaria.

Andrebbe anche considerato che poiché il processo unitario dell’Ue è in uno stadio avanzato, i costi e la cooperazione per tornare indietro ordinatamente potrebbero essere più elevati che per andare avanti, specialmente nell’incertezza economica e geopolitica esistente.