Natalio Grueso, Woody Allen, l’ultimo genio, trad. it., Milano, Salani, pp. 269, euro 16,00.
Niente da dire sulla loro grande amicizia e neppure sulle innumerevoli cene nelle varie parti del mondo, compresa Oviedo, città natale dell’autore dove riesce a trascinare anche Arthur Miller per abbandonarli in un ristorante a parlare tra di loro di non si sa che. Sono cose che capitano nel piacevole libretto, dove a un certo punto senza motivo si parla per cinque, sei pagine di Susan Sontag, che nel suo snobismo compulsivo il critico spagnolo ci tiene a farci sapere che l’ha incontrata di persona e la conosce bene. Qualche dubbio nasce sul tono programmaticamente agiografico per cui, tra una cena e l’altra, si celebra l’intera filmografia del regista statunitense, anche i titoli più ripetitivi, un po’ stanchi, meno geniali. Il sospetto che l’unico a dire cose intelligenti sui suoi film sia lui stesso si conferma a ogni nuovo libro, mentre si rimpiangono le Conversazioni su di me e tutto il resto con Eric Lax, uscito dieci anni fa da Bompiani. Notevole la toponomastica newyorkese, tra un aperitivo al Carlyle, una suonatina al The Blue Angel, senza mai allontanarsi troppo dall’Upper East Side, intorno alla Quinta Strada, all’altezza del Central Park.

Fabrizio Grosoli, Elfi Reiter, Werner Herzog, Milano, il castoro cinema, pp. 223, euro 15,50.
“Guardando fuori da questa finestra non vedo altro che mura, creare immagini oggi non è più possibile. Bisogna scavare come un archeologo per riuscire a strappare ancora qualche immagine ‘vera’ a questo paesaggio offeso, è sempre più difficile trovare ciò che riflette la ‘trasparenza’ nelle immagini”. Werner Herzog lo dice in Tokyo Ga di Wenders dalla terrazza della torre più alta della città, ribadendo la poetica del grande visionario sempre a caccia di immagini non ancora viste, disposto a andare dappertutto gettandosi anima e corpo nelle imprese più impossibili, nelle esperienze-limite vissute di persona. Sempre in bilico tra il trionfo e il flop, dopo la consacrazione internazionale degli anni settanta continua il viaggio raggiungendo gli indiani Miskitos nel Nicaragua, gli aborigeni australiani, le rocce di Cerro Torre in Patagonia, mentre la distinzione tra fiction e documentario diventa sempre più precaria. Solo identificandosi totalmente con i suoi personaggi – o con Klaus Kinski, il suo conflittuale alter-ego – riesce a essere il sognatore che, in un’atmosfera di allucinazione, di delirio, di follia, sposta le montagne.

Silvia Toso, Evelina Nazzari, Fratelli d’arte. Storia familiare del cinema italiano, Roma, EdizioniSabinae, pp.300, euro 18,00.
Che bella idea questa delle figlie di Otello Toso e di Amedeo Nazzari di incrociare le filmografie dei loro padri per chiedere a una ventina di “figli di” di raccontare il loro rapporto – affettuoso, sofferto, travolgente, indimenticabile, assente – con i genitori. Storie familiari del cinema italiano, ripercorrono dall’interno momenti e personalità del nostro puzzle nazionale con la freschezza di accenti tipica della vita vissuta. Dal ritratto di Carlo Dapporto, ingiustamente dimenticatissimo, del figlio Massimo che rievoca con commozione i tempi della rivista, la passione per il tango, le strepitose imitazioni di Monsieur Verdoux e di Stanlio e Ollio, al ricordo di Alessandro, il Grande Blasetti, un capitolo eccezionale del made in Italy che la figlia Mara ci regala con affettuosa ironia, dai duelli tra Cervi e Valenti per Ettore Fieramosca alle lungimiranti intuizioni di Europa di notte, senza trascurare gli scontri feroci, perché naturalmente ci sono stati anche quelli. Ma come dimenticare le pagine terribili, che, a ricordi intrecciati, Valentina e Orsetta dedicano a Arnoldo Foà, un padre come tanti presente/assente? Nella loro crudezza, una delle testimonianze più alte e dolorose.

Valeria Arnaldi, In grazia e bellezza. L’evoluzione della donna secondo Disney, Roma, Ultra, pp.220, euro 23,50.
Sullo sfondo degli ottant’anni che vanno da Biancaneve e i sette nani a Frozen-Il regno del ghiaccio, la differenza tra la prima eroina dell’animazione disneyana, perfettamente aderente allo stereotipo dell’ingenua in attesa del salvatore, e l’ultima, un carattere forte e battagliero, racconta una storia. Quella dei personaggi femminili che perdono per strada le convenzioni del passato per avvicinarsi ai primi, timidi tocchi protofemministi. Se la galleria dei modelli dal vero tutte acqua e sapone, che posano per i ruoli delle protagoniste dei lungometraggi, ripropone la favola nel suo coté più dolciastro e regressivo, l’eccezione che esce dagli schemi è rappresentata da Andrew Tarusov che spregiudicatamente trasforma in piccanti pin-up le principesse e le streghe di Disneyland, da Dillon Boy che rivede le dolci fanciulle di ieri in chiave di esplicita trasgressione sessuale, dall’iraniana Saint Hoax che fa indossare i costumi delle principesse alle ragazze del suo paese e le utilizza come icone nelle campagne contro il terrorismo, la violenza, la paura dell’altro.

Marina Pellanda, Andrej Tarkovskij. Andrej Rublev, Torino, Lindau, pp. 285, euro 24,00.
Il grande film del ’66 diventa in questo bel libro l’occasione, a trent’anni dalla morte, per ricostruire la parabola creativa del regista russo che – censurato dall’ufficialità sovietica, girerà in Italia e in Svezia i suoi ultimi film – sembra rivivere nei turbamenti di Andrej Rublev, il monaco medievale combattuto tra arte e potere. Ma anche nella tenacia di Efim, il contadino che nel prologo sfida lo zar volando sul pallone aerostatico. E in quella di Boriska, il giovanissimo fonditore di campane che, dopo essersi vantato di aver appreso i segreti dal padre sul letto di morte, quando alla fine la campana emette il suo primo poderoso rintocco si allontana dalla folla e si abbandona a un pianto liberatorio. Nessuno gli ha insegnato niente e ha dovuto fare tutto da sé. Estraneo al paradigma ejzenstejano del montaggio, Tarkovskij è il poeta del tempo sospeso e dilatato che si misura con la complessità del reale e il destino dell’uomo. Senza mai volgere la macchina da presa verso il cielo che “è vuoto e non ci sono che i suoi riflessi sulla terra, nel fiume, nelle pozzanghere”.

Mario Gerosa ( a cura di ), James Bond spiegato ai cinefili, Piombino, Il Foglio, pp.188, euro 15,00.
La camminata dell’uomo in smoking da destra verso sinistra che, raggiunto il centro dello schermo, spara verso il pubblico, è vista attraverso la canna di una pistola, mentre il sangue inizia a colare dall’alto. Riconosciuto trademark di James Bond, si chiama “gunbarrel” e appare in tutti i ventiquattro lungometraggi dell’agente segreto inglese, di solito all’inizio e, in un paio di casi, alla fine prima dei titoli di coda. L’ha inventata Maurice Binder, un designer newyorkese appassionato d’arte contemporanea che forse non conosceva l’Op Art di Bridget Riley, ma ha certamente visto la spirale giroscopica che Saul Bass aveva disegnato qualche anno prima per La donna che visse due volte. Se credete di sapere tutto sulla saga di 007, questo libro vi sorprenderà ripercorrendo trasversalmente i sottotesti cinefili tra le pieghe dell’impianto mainstream. Citazione d’onore per l’ampio saggio di Gerosa che ritrova le attrazioni del circo classico vittoriano nella tipica carnevalizzazione dei film di James Bond, sgargianti videogame a corrente alternata in cui Sam Mendez ha cercato di imporre il suo biglietto da visita d’Autore.

Pier Maria Bocchi, Invasion Usa. Idee e ideologie del cinema americano anni ’80, Milano, Bietti, pp. 203, euro 18,00.
Cosa resta degli anni settanta del cinema americano, ormai considerati uno dei capitoli più gloriosi del cinema mondiale, quando s’impone la cosiddetta reaganomics, la politica economica, culturale, morale di cui Reagan si fa portatore? Nel verificare sul campo il decennio degli ottanta, che non ha ancora avuto la fortuna critica del precedente e del successivo, il libro si propone di osservare dall’interno un’industria e un mercato, una realtà politica e sociale. Senza ricorrere al passe-partout del postmoderno, categoria superinflazionata, e non perdendo mai di vista i campioni d’incasso della fantascienza, del fantasy, dell’horror, dell’avventura dominanti, il panorama degli eighties che ne esce è di grande interesse anche per comprendere il presente, i cambiamenti sia di sistema sia estetici. Chi vuole controllare di persona lo scenario generale su un gruppo di titoli di vario livello, lo può fare con il capitolo finale, da Ricche e famose di George Cukor a fine corsa, ma in grado di intuire la contemporaneità e le esigenze di una realtà nuova, a Henry. Pioggia di sangue di John McNaughton, con il suo spazio chiuso e angoscioso da cui nascerà l’immaginario orrorifico di oggi.

Giulio Questi, Effetti & scadenze, Soveria Mannelli, Rubbettino, pp. 205, euro 15,00.
Straordinario e indimenticabile Giulio, quante chiacchiere nell’estate del 1983 nell’attico del centro. Mentre in cucina il padrone di casa traffica coi fornelli, lo intervisto sui suoi rapporti con lo spaghetti-western. Se Dino De Laurentiis non se ne fosse scappato in Usa prima del ciak d’inizio, ne avrebbe fatto un secondo dopo Se sei vivo spara, che era andato benissimo. Singolare viaggio nell’orrore più spiazzante, oggi il film scritto e montato con Franco Kim Arcalli è considerato uno degli western all’italiana più originali e violenti della stagione pop del nostro cinema. Forse ancora più riuscito di La morte ha fatto l’uovo e Arcana, i suoi due capolavori a lungo misconosciuti. Giulio, si sa, se n’è andato a novant’anni nel 2014 pochi mesi dopo aver pubblicato da Einaudi Uomini e comandanti, strepitosa raccolta di racconti resistenziali visionari e violenti. Effetti & scadenze non è a questi livelli, ma è un pulp ambientato nella Roma degli anni novanta, tra cravattari e balordi, crudo e cattivo nello sfarfallio di cambiali e di assegni in rosso, mentre volano gli stracci nelle strade piene di buche della capitale.

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