C’è una certa giustezza poetica legata a questo momento della storia Usa nel fatto che la più grande mostra mai allestita sul lavoro di Laurie Anderson sia ospitata non a New York, la città d’azione dell’artista chicagoana, ma a Washington, all’Hirshhorn Museum, uno dei rami dello Smithsonian, allineato insieme ai grandi musei della città lungo la striscia verde che dall’Obelisco porta ai piedi del Campidoglio, non distante dalla Casa Bianca, dove Anderson aveva invitato il suo pubblico a seguirla, in segno di protesta contro Trump, nell’ottobre del 2020, poco prima delle presidenziali. In quell’occasione, con un re-staging di una delle sue performance storiche, Duet on Ice, Anderson aveva offerto anche al pubblico online un assaggio di questa mostra che ha definito una «non retrospettiva», e che è stata ritardata più di un anno dalla pandemia.

LA CONDIZIONE a cui aveva accettato di essere «omaggiata» dal Museo, spiegò, era di creare una mostra che non guardasse al passato ma al presente, una mostra viva, piena di idee e di nuovi lavori. The Weather, il suo titolo, significa il tempo. «Quando ero una bambina, nel Midwest, quando non c’era nulla da dire si parlava del tempo -bella giornata….Oggi il tempo stesso è diventato una storia. Cataclismica. Inimmaginabile. Crescente», scrive Anderson nell’opuscolo distribuito ai visitatori. La stessa urgenza, improvvisamente acquisita dal soggetto di conversazione più banale del mondo, attraversa il percorso circolare della mostra, che occupa il secondo piano del Museo. È un percorso di «storie», spesso re-immaginate in nuovi allestimenti, per l’occasione, che ci ricorda quanto, aldilà della vocazione multimediale e del gusto per la sperimentazione tecnologica, il raccontare stia al cuore dell’opera di quest’artista.
Un raccontare che spazia con fantasiosa, a tratti commovente, naturalezza, tra autobiografia e osservazione della contemporaneità americana – tra limpida analisi politica ed emozione profonda, memoria e filosofia.

intallazione di Laurie Anderson, foto di Ron Blunt

Il fascino, la qualità infinita e l’evanescenza delle storie, era il soggetto di Chalkroom un’installazione VR del 2018 che -causa visori banditi per il Covid- è diventata una stanza dai muri neri fitti di scritte e di disegni ove sono ospitate tre sculture concepite appositamente per The Weather – un corvo gigante che allude a Poe e all’uccello dell’arca di Noè scomparso dopo essere stato mandato a cercare la terra; una canoa dorata immaginata per «navigare la marea del cuore» e un grosso pappagallo parlante con una vocina metallica. Una stanza, battezzare Four Talks, in cui Anderson sarebbe stata rinchiusa per settimane, durante la fase di allestimento, a formulare le figure e i testi. Scritte, cantate, sussurrate, le parole sono in effetti dovunque nella mostra – come la musica, che ogni tanto cambia persino da un angolo all’altro dello stesso spazio e a cui, a un certo punto, si aggiunge il suono di un temporale. Alcune delle storie arrivano dall’infanzia dell’artista (indelebile quella del periodo passato in ospedale pediatrico, in un letto adiacente all’unità per ustionati, dove giaceva, paralizzata, dopo un tuffo finito sul cemento invece che nella piscina; come quella in cui ha salvato i due fratellini inghiottiti da lago ghiacciato dove si era avventurata per vedere la luna. «Vedi che brava nuotatrice che sei», fu il commento della temutissima madre.

Il suo titolo, significa il tempo. «Quando ero una bambina, nel Midwest, quando non c’era nulla da dire si parlava del tempo -bella giornata….Oggi il tempo stesso è diventato una storia. Cataclismica. Inimmaginabile. Crescente»

ALTRE non sono necessariamente sue – come quella di Mohammed el Gahrani che, rinchiuso a Guantanamo quando era teenager, ci rimase per sette anni, torturato più volte e senza mai essere incriminato per nulla. Habeas Corpus era il titolo dell’installazione di tre giorni che Anderson gli dedicò nel 2015, alla Park Avenue Armory di New York (lui apparve in streaming dal West Africa, proiettato su schermi/scultura giganti), replicata all’Hirshhorn senza la diretta. Nelle sue storie, alternate a lunghi silenzi, el Gahrani riflette sugli anni della sua prigionia.

I SOGNI sono invece il soggetto di uno dei primissimi lavori di Anderson, Institutional Dream Series, una serie di fotografie, scattato all’inizio degli anni Settanta, che la ritraggono giovanissima, dormiente, in diversi spazi pubblici di New York -per scoprire come i luoghi e la luce impattino l’attività onirica. Esposti sono anche alcuni degli strumenti che ha inventato (il violino concepito per Duet on Ice, che combina una musica preregistrata a quella dal vivo) e i poster dei suoi spettacoli storici. La natura live di gran parte della sua opera limita in un certo senso l’ampiezza delle possibilità retrospettive della mostra. In un altro la sfida di dare una vita diversa ai lavori appositamente per l’Hirshhorn rende più emozionante l’intera esperienza.