«La stirpe dei Merovingi (…) era una stirpe priva di forza, che non aveva in sé altro lustro che il mero titolo di re. Le ricchezze e i poteri del regno erano detenuti dai prefetti del palazzo, che erano chiamati ‘maggiordomi’ ed esercitavano il vero comando. Null’altro era lasciato al re che sedere sul trono, accontentandosi del solo titolo regio, con la chioma lunga e la barba fluente, e di atteggiarsi a sovrano, di ascoltare gli ambasciatori, da qualsiasi parte venissero, e quando ripartivano dar loro i responsi che gli erano stati indicati o imposti, fingendo che provenissero da lui. (…) Dovunque andasse, si spostava su un carretto tirato da buoi e guidato da un mandriano, come si spostano i contadini». Questo, nella traduzione di Paolo Chiesa, è il celebre passo della Vita di Carlo Magno dedicato nel IX secolo da Eginardo alla dinastia dei Merovingi, che precedette i Carolingi governando dal VI all’VIII secolo parte di quel che oggi sono Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera e Germania. Da allora si è consolidato il cliché di re prestanome, ininfluenti e quasi caricaturali nel voler conservare i capelli lunghi come unico segno del loro rango, un costume regolato in effetti da precise disposizioni di legge. Questo cliché ha attraversato i secoli, consegnando alla modernità l’etichetta di «rois fainéants», «re fannulloni», poi usata ai giorni nostri perfino per Chirac. A questo aspetto nell’immagine dei Merovingi si aggiunge il tragico quadro degli assassinii seriali con cui risolsero molte delle loro controversie dinastiche o anche solo politiche, come ci sono stati raccontati dalle Storie di Gregorio di Tours (538-594) e dalla Cronaca di Fredegario, alle quali dobbiamo quasi tutto quello che sappiamo delle loro vicende.
Da qualche anno gli storici tentano di modificare o ribaltare questo luogo comune e i risultati delle loro ricerche sono confluiti nell’esposizione Les temps mérovingiens – ispirata al titolo del celebre libro di Augustin Thierry del 1840 – ospitata dal Musée de Cluny a Parigi, quello che conserva il celebre ciclo di arazzi della Dame du licorne. Il coraggioso sottotitolo della mostra, Trois siècles d’art et de culture (451-751), punta sulla rivalutazione culturale del periodo e in effetti l’eccellente catalogo, diretto da Isabelle Bardiès-Fronty (conservatrice del museo), Charlotte Denoel (conservatrice dei manoscrittti della Biblioteca Nazionale di Francia) e Inès Villela-Petit (conservatrice delle Antichità della biblioteca), mette in campo una panoramica ricchissima di testimonianze e manufatti (213 esposti nella mostra e altre decine riportati a stampa) di oreficeria, arte libraria, miniature, epigrafia, corredi militari, resti architettonici. L’impressione dal vivo è suggestiva ma più modesta, perché molti di questi oggetti sono di dimensioni ridotte e quasi tutti sono concentrati in un’unica sala imponente, che un tempo faceva parte delle terme romane di Lutetia, ma non monumentale.
La chiave di lettura dei curatori e dei collaboratori, fra i quali alcuni dei migliori medievisti europei, è l’indagine non tanto sulla committenza diretta dei Merovingi, raramente dimostrabile e resa ancor meno percorribile dalle spoliazioni moderne, quanto sulle attestazioni dell’epoca che in Francia si chiama merovingia, e dei relativi territori, vista come ponte fra l’inesauribile eredità romana, inclusa la sua propaggine bizantina, e la maestosa rinascita carolingia (che, per fare un esempio, portò la produzione libraria – misurata su ciò che ci resta – da 1800 codici in tre secoli a 9000 in un secolo solo). Per questo la mostra non ha problemi a includere i dittici eburnei dei consoli galloromani di nuova nomina e i bassorilievi, sempre in avorio, di fattura gallica (dunque non merovingia) di ispirazione bizantina o i missoria (piatti in metallo prezioso), abitualmente offerti dall’imperatore ai propri dignitari e le fibbie e i foderi in pregiato cloisonné (smalto filigranato tipico del tardo impero). Analogamente, gli ultimi avori e i manoscritti più recenti fanno già parte dell’evo protocarolingio, pur essendo prodotto di officine di fondazione merovingia.
Anche fra i tesori autenticamente merovingi ci sono pezzi di datazione dubbia: uno dei più vistosi è l’elegante sedile in bronzo, ispirato alle selle curuli romane, chiamato Trono di Dagoberto, il primo re di Francia – morto nel 639 – ad essere sepolto nella chiesa di Saint-Denis, il cui abate Sugero propose questa identificazione, smentita però dalla datazione all’VIII-IX secolo. Certamente avrebbe suscitato profonda impressione, se ci fosse pervenuta integralmente, la Tomba di Childerico, figlio diretto dell’eponimo Meroveo: scoperta nel 1653 presso Tournai e identificata da un’iscrizione sull’anello, è stata studiata da scavi del 1986 che hanno individuato un’inumazione di 30 metri di diametro con 30 cavalli sacrificati, secondo l’uso pagano documentato anche nel funerale di Attila.
Oggi però dell’immenso corredo restano solo poche tracce, fra cui l’ascia leggera denominata francisca, l’elsa della spatha tipica dei Franchi e le api d’oro e granato (originariamente trecento, oggi due), simbolo dell’immortalità che Napoleone (ultimo a sedersi sul Trono di Dagoberto) riprese nei suoi paludamenti simbolici. Altro pezzo forte decimato dai secoli è il Tesoro di Arnegonda, una delle mogli di Childerico, trovato nella sua tomba, identificata nella cripta di Saint-Denis nel 1959, ulteriore testimonianza di un presunto incremento dei diritti (e dei poteri) delle donne documentato nella legge salica e nelle figure di sante, specialmente regine (come Clotilde o Radegonda), ma anche nei personaggi di regine assassine come Brunilde o Fredegonda, protagoniste di alcune delle pagine più atroci delle storie di Gregorio. Il più antico documento privato su pergamena degli Archivi nazionali francesi, che forse è anche il più antico documento privato conosciuto (673), è firmato da Clotilde. Del Tesoro di Arnegonda però sono rimaste solo un anello col sigillo, spilloni e fibule rotonde di foggia bizantina che lasciano solo immaginare la dotazione originaria, pur fornendo preziose informazioni sulla moda del tempo.
Il pezzo più spettacolare è forse il Tesoro di Guarrazar, un deposito di oreficeria scoperto intorno al 1860 in Spagna, di cui restano alcune delle 26 corone d’oro e gemme ornate da pendagli circolari di pietre preziose con una croce centrale: ma è riferibile con certezza alla casa reale visigota e non ai Merovingi. Le pratiche scrittorie sono testimoniate sia da epitafi, provenienti talora da scavi recenti (come quelli di Marsiglia del 2003), sia da una bella scelta di manoscritti nelle tante scritture locali che caratterizzarono un’epoca priva di standard di comunicazione grafica (poi unificati nella carolina, chiamata dagli umanisti littera antiqua e oggi Times New Roman), con i giocosi incipit in lettere verdi e gialle a forma di animali. Il tentativo di individuare le marche di un’arte merovingia in ricorrenze decorative come l’alternanza di oro e rosso o l’abbondanza di intrecci geometrici sfocia infine nella definizione di cultura ricettiva di modelli mediterranei (i dittici, il cloisonné, perfino immagini copte), germanici (le figure animali, le architetture visigote) o esterne all’impero (celtiche o est-europee) e ha fatto parlare di sincretismo merovingio, ma in questa formula l’aggettivo sfuma sino a indicare un termine puramente cronologico e territoriale.
Anche a prescindere dagli orientamenti talvolta pregiudiziali della storiografia moderna, i dati materiali degli scavi e dei documenti confermano l’esistenza di epoche forti e epoche deboli della storia, ma lasciano ai tempi di transizione o gestazione il fascino dell’esperimento, luci accese per un attimo su forme inconsuete, inquietanti e talora goffe, destinate a spegnersi presto.