Dice Robert Rauschenberg in quella preziosa intervista di Dorothy Seckler del dicembre 1965 (pubblicata lo scorso anno in Italia da Etcetera): «È sempre un piacere abbandonare gli stili». È un piacere suo, ma anche un piacere di chi si affaccia alla grande mostra che ha iniziato il suo tour dalla Tate Modern di Londra e che approderà al Moma di New York (dal 21 maggio; catalogo in coedizione davvero esemplare).
Sin dalla prima sala gli stili si rincorrono e quindi anche i piaceri. Siamo agli inizi degli anni cinquanta e quel ragazzone texano di 25 anni era appena sbarcato a New York dopo essere passato alla scuola di Josef Albers a Black Mountain. «New York ha la dote dell’imprevedibilità ad ogni angolo. È qualcosa di assolutamente straordinario», ricordava Rauschenberg, che di quell’imprevedibilità avrebbe fatto la propria cifra. In questa prima sala lo vediamo già scorrazzare in piena libertà, sperimentando con slancio, ma sempre con la lucidità di chi è ben consapevole che anche l’imprevisto «va organizzato affinché esista». Chiede a John Cage, perché era l’unico del giro che possedesse una macchina, di collaborare a realizzare Automobile Tire Print: una sequenza di fogli lunga sei metri sulla quale la Ford Model A era transitata lasciando l’impronta del pneumatico, prima bagnato in una pozza di vernice nera. Opera imprevedibilmente lirica, quasi un fregio, che scorre come un tracciato narrativo: racconta implicitamente di un’amicizia, di una coincidenza di visioni, di un’affinità di strade.
Rauschenberg era artista strutturalmente collaborativo. Non a caso in quegli anni di esordio lo vediamo lavorare con Susan Weil, che fu per breve tempo sua moglie oltre che madre di suo figlio Christopher (a quattro mani realizzano le Exposed blue print, 1950, quasi degli Yves Klein elettronici); con Willem De Kooning, artista a cui guardava con immenso rispetto ma al quale chiese un disegno da cancellare (De Kooning erased, 1953: del disegno resta solo una labile anima); con Cy Twombly, molto più che un amico, con il quale aveva fatto un viaggio in Italia, documentato dalle celebri fotografie scattate a Cy tra le rovine romane. Da quel viaggio era nata la serie delle Scatole personali, titolo originale in italiano, piccoli reliquiari per custodire frammenti di memorie minime.
C’è un accento sempre propositivo e spavaldo nel Rauschenberg degli inizi, un artista capace di immaginare dei quadri bianchi minimalisti quasi «non dipinti», o, all’opposto, dei quadri neri con la superficie invece tormentata per un sostrato di giornali accartocciati. E che dire delle Elemental sculptures (1953), aggregazioni di piccoli oggetti di risulta, travi, sassi, corde, chiodi, di inattesa grazie e potenza? Tutte opere che si incontrano in questa prima sala: un eccitato e indimenticabile concentrato rauscherbenghiano. È anche un inizio che fissa già con chiarezza le modalità future. Perché Rauschenberg è un artista che da una parte non torna mai sui suoi passi (come annunciato da quella traccia di pneumatico sempre in transito) e dall’altra lavora a porte aperte. Contesto, situazioni e relazioni sono le fonti di energia da cui attinge e con cui si misura.
Per queste ragioni la mostra, forte di prestiti di grande qualità, scorre con una scansione esemplarmente chiara: le cesure tra uno stile e l’altro sono cesure sempre molto nette e senza ripensamenti. Per di più Rauschenberg all’interno di ciascuna di queste fasi si dimostra sempre preciso e lucidamente metodico. «La mia regola è semplice – diceva –, le cose devono avere sempre una loro coerenza».
Rauschenberg amava di più i movimenti laterali che quelli in avanzamento. Non era ansioso di fare quello che non era mai stato fatto, di apparire artista di avanguardia, e non è un caso che sia toccato a lui il premio della Biennale del 1964, storico riconoscimento che nell’anno della morte di Morandi sdoganava in Europa la nuova arte americana attraverso il suo interprete in fondo più garbato.
Il percorso della mostra conferma l’immagine di un grande artista sempre capace di self control, che per quanto forzasse le scelte dal punto di vista formale, non dava mai l’idea di voler essere oltranzista, né di voler rompere rispetto ad un ordine costituito. Semmai l’impressione è che Rauschenberg si muova su un piano inclinato, lungo il quale le sue soluzioni con il passare degli anni trovano forse più consenso e riconoscibilità ma non rinnovano quell’istintiva ribalderia degli inizi. I celebri cartoni di inizio anni settanta, gli jammer di tessuto realizzati dopo il viaggio in India di qualche anno dopo, ma anche i glut realizzati con le insegne di lamiere dismesse per la crisi petrolifera di metà anni ottanta, sono realizzati con una preoccupazione di pulizia compositiva che non si riscontrava nel Rauschenberg degli anni dinquanta e dei primi anni sessanta. Quello era il Rauschenberg che invece raschiava la realtà, trattenendo tutto, sporco, polvere, scarti compresi. Soprattutto era un Rauschenberg che si era assunto una missione ben precisa: fare un balzo oltre l’espressionismo astratto, smarcarsi da quell’orizzonte ancora ingabbiato nel quadro e in un’idea di pittura ultimamente ripiegata su stessa («predigerita», la definiva con efficacia). «Nei quadri» – dice in quell’intervista del 1965 – da un po’ di tempo in qua è come se la pennellata fosse stata appena stesa sulla tela e l’artista se ne fosse appena andato».
Metafora efficace per uno stile che lui considerava in quel momento a un punto morto. Per questo sbalza fuori a forza di contaminazioni interne alle opere, come nel caso dei celebri Combine (la mostra ne propone una straordinaria selezione), presentati per la prima volta alla Egan Gallery di New York nel dicembre 1954; o con contaminazioni esterne come per i veri e propri happening sulla scena con Merce Cunnigham e John Cage.
Rauschenberg in quella stagione allarga i confini e immediatamente consolida i territori conquistati, seguendo quella sua doppia identità: da un lato, di sangue cherokee da parte di padre; dall’altro, allievo al Black Mountain college di quel maestro di visioni lucide e poetiche che era Josef Albers. In questa prospettiva l’approdo alla Pop art, che lo aveva consacrato a livello globale sul palco della Biennale, sembra segnare una svolta, come se quella energia fosse stata inscatolata dentro una prospettiva più convenzionale. Per questo, arrivati alla fine della mostra, è difficile trattenersi dall’istinto di rifare il percorso a ritroso e tornare alle sale di quegli anni formidabili. Così da uscire tenendosi negli occhi tutta la trasgressività piena di sorprese e anche di delicatezze di quell’«iconoclasta gentile» (impeccabile definizione che diede di se stesso).