Ha un sapore austero ed elegante la residenza dei conti di San Fernando, rinserrata nella geometrica piazza della Cattedrale de L’Avana, al centro del meticoloso reticolo di strade che organizza la città coloniale; ed è a tal punto barricata contro il caldo che tutto l’anno infiamma quei quartieri, da suggerire appena – oltre l’ampio portone d’ingresso e attorno al patio ombreggiato cui si stringe l’impianto severo del palazzo – la presenza di un’istituzione vivace come il Centro d’arte contemporanea Wifredo Lam; un organismo fondato nel 1983 per «arricchire il patrimonio culturale dello Stato mediante la nascita di una raccolta permanente … e lo scambio sistematico di documentazione», da allora cuore pulsante dell’importante biennale basata a Cuba. Aspettando il vernissage della rassegna futura prevista per il prossimo novembre sotto la guida di Rafael Niemojewski, il centro offre al pubblico un’antologica della propria collezione, rivolgendo uno sguardo attento alle applicazioni del tratto grafico; insieme propone un’intensa selezione di scatti in sontuoso bianco e nero dedicati a una delle voci eminenti dell’avanguardia indigena, l’‘eponimo’ pittore Wifredo Lam, il quale negli anni trenta poté educare le proprie lunghe mani sul surrealismo parigino per poi rientrare in patria e occupare un posto precipuo fra i protagonisti dell’arte moderna, le inconfondibili lingue candide a colorarne i capelli crespi di sino-congolese, quasi un simbolo fiammante della meticcia composizione della comunità isolana.
Non solo: il secondo piano della casa signorile, le alte stanze aperte al circolo dell’aria sotto agli incastri azzurri dei soffitti, ospita una mostra consacrata alla carriera longeva e prolifica di Raul Martínez, esponente di spicco della transizione vissuta dal paese fra gli anni cinquanta e gli anni settanta, quando al gangsterismo politico di Fulgencio Batista seguirono le aspirazioni popolari della Revolución, la svelta silhouette del Granma a far da spartiacque.
Martínez è, in questo senso, figura laureata nell’olimpo nazionale. Nato nel 1927, si è visto celebrare – ormai maggiore – in una grande retrospettiva nel parallelepipedo modernista del Museo nacional fra il luglio e il settembre del 1988; avrebbe poi avviato nel ’95 il Premio Nacional de Artes Plásticas, venendo insignito dell’onorificenza nell’edizione inaugurale di quella cerimonia governativa. Pure il Centro Lam non ne ospita oggi per la prima volta una monografica: nel ’94 ha proposto una scelta della sua produzione estrema, in anticipo di pochi mesi sulla scomparsa del pittore. Del resto, un volume importante per l’analisi delle tendenze correnti a L’Avana alla fine del secolo come l’indagine pubblicata da Luis Camnitzer sempre nel ’94, lo includeva – assieme a Umberto Peña e Ana Mendieta – fra i precursori più autorevoli per la generazione seguente, quella attiva dagli anni ottanta, prescegliendone l’esempio a partire dagli attestati di stima dei più giovani colleghi.
Un simile, ufficialissimo cursus ha voluto ovviamente accreditare la funzione testimoniale svolta da Martínez: non stupisce dunque che l’evento odierno, pensato da Corina Matamoros in occasione del novantesimo anniversario della nascita, sia stato inteso nella forma di un ulteriore ‘omaggio’ motivato da questo ruolo-cerniera, dietro al titolo scanzonato di Alegreto cantabile.
La bella occasione – pure costruita in una prospettiva cronologica ampia – inanella infatti un’abbondanza di prove ascrivibili al sesto e al settimo decennio, capace di attingere con generosità dal ricco patrimonio pubblico di arte cubana oltre che dall’eredità familiare dell’artista (il cui estate è gestito dalla stessa Matamoros). Offre così un bilancio meditato della posizione da questi occupata nel transito della pittura autoctona da un’ortodossia astrattista – favorita dall’inserimento in una più ampia sfera d’influenza statunitense – verso le specificità culturali seguite al 1959, alla definitiva affermazione del Movimento del 26 luglio e alla nascita del Partido Unido capeggiato da Fidel.
Operoso dalla fine dei quaranta, Martínez ebbe occasione di trascorrere nel ’52 un soggiorno di studio presso l’ IIT Institute of Design di Chicago: quest’esperienza lo mise direttamente in contatto con la vague gestuale dell’action painting nordamericana, riferimento che ne arricchì la parlata assieme alla lezione concreta di connazionali della fatta di Luis Martínez Pedro, col quale lavorò presso l’agenzia pubblicitaria OTPLA al suo ritorno nei Caraibi. Proprio tale posizionamento lo avvicinò al gruppo astrattista de Los Once, unitisi nel ’53 in un’esposizione presso lo spazio La Rampa; e la sorprendente selezione di opere in mostra, ascrivibili a quel tempo, documenta anche altre curiosità, in primis quelle per Hans Hartung. Conclusasi con successo la sollevazione armata, il pittore si mantenne dapprima fedele a un simile partito, nella situazione-cliché che vide contrapporsi alla tradizione degli anni cinquanta un’enfasi rivoluzionaria sul realismo e la missione politica di un’opzione figurativa. Nel ’63 è così fra gli invitati all’appuntamento Expresionismo abstracto organizzato presso la Galería de La Habana, trasformando una simile presenza in lotta per la libertà d’espressione (come ricordato da Ángel Tomás in un contributo retrospettivo del 1988).
Tuttavia tale militanza avrebbe avuto un corso breve, col procedere del decennio; e l’esposizione è efficace nel delineare quanto alla messa a punto di un linguaggio ‘altro’ concorresse la sperimentazione in campi e tecniche diverse, oltre alla conoscenza dell’oeuvre rauschenberghiana. Non ci si sofferma, è vero, nelle sale del centro sulle sue prove grafiche (copertine di romanzi, cartellonistica per teatro o cinema, con una produzione originalissima nel pur dinamico contesto cubano); tuttavia una rilevanza decisiva è riservata alla serie ¿Foto-mentira!, nata in un’ottica di collaborazione con Mario García Joya e Luc Chessex , e ad alcuni degli Homenajes, in cui proprio l’uso delle fotografie si associa al ricorso fedele alla pennellata materica. L’impiego dell’immagine analogica – in termini di collage o di ispirazione – segna del resto la svolta ‘pop’ dell’arte di Martínez: un’evoluzione che, scontando un debito esplicito con le novità warholiane, ne incorpora alcune pratiche procedurali (l’ampliazione, la ripetizione, la moltiplicazione, la semplificazione, l’appropriazione) senza mai accettarne la ‘via fredda’, ‘cerebrale’. Con l’intento di disegnare un «paesaggio» dell’isola, Raul continua cioè a dipingere quel panorama, non arrivando mai alla meccanica riproduzione del dato di realtà; anzi, partendo da una restituzione degli eroi popolari dell’epica guerrigliera (da José Martí a Che Guevara, tratteggiati nel ricorso a un’iconografia diffusa), perfeziona uno stile asciutto, in salsa lisergica (in mostra le effigi dei Beatles, d’après Yellow Submarine), che in oli come Ustedes, Nosotros assume la forza di ritratto di un’intera epoca.
In questo senso, merito ulteriore della Matamoros, il presentare alcuni suoi ‘incompiuti’ come Lo que es certo, no es certo (rimasto in mano degli eredi): nell’insolito bianco e nero di queste tele, si evidenzia infatti la piena potenza sintetica, lirica della pittura di Martínez, la serietà della sua concezione egalitaria, della sua prospettiva umanistica nella dinamica – descritta da Camnitzer – secondo la quale «with Cuban art, it is easy to idealize how art may be made into a popular and classes tool» dal momento che «Cuba is “returning” symbolic goods to the people mainly through dissemination».