Non son pochi i libri che hanno trattato questioni vive nel dibattito attuale, come quella della condizione femminile, col mezzo della narrazione biografica. A questo genere Elisabetta Rasy ha voluto donare le sue cospicue doti narrative nel suo ultimo lavoro Le Disobbedienti Storie di sei donne che hanno cambiato l’arte (Mondadori «Le scie», pp. 264, euro 20,00), che consta di sei profili, ciascuno contraddistinto da una nota caratteriale dominante: il coraggio per Artemisia Gentileschi, la tenacia per Élisabeth Vigée Le Brun, l’irrequietezza per Berthe Morisot, la ribellione per Suzanne Valadon, la resistenza per Charlotte Salomon, la passione per Frida Kahlo.
Profili biografici s’è detto, anche se l’intento dell’autrice più che alla minuziosa ricostruzione dei dati storici sembra vòlto a identificare nella vita delle pittrici degli exempla laici d’eroine disobbedienti a quelle imposizioni sociali descritte mirabilmente da Virginia Woolf nelle famose pagine di A room of One’s Own. La Gentileschi che, umiliata da un processo iniquo, si trasferisce a Firenze, dove, cambiato il nome in Artemisia Lomi, impara a leggere, a scrivere e a trattare con quei ricchi gentiluomini dai quali riceverà di lì a poco laute committenze; la Vigée Le Brun, ritrattista di Maria Antonietta e d’un mondo occiduo, che, esule dopo la rivoluzione, porta con sé l’amore per l’arte e il ricordo della società aristocratica che l’aveva allevata; la Morisot, che malinconica, trasognata, rifiuta insieme le convenzioni sociali e quelle pittoriche; la Valadon, figlia d’una guardarobiera scacciata dalla casa dei padroni, che, trovato rifugio in uno squallido abituro nella periferia di Parigi, diviene pittrice e girovaga, incarnazione del mito della Montmartre del Moulin Rouge; la Salomon, che in oltre milletrecento tempere, accompagnate da parole e da annotazioni musicali, racconta la sua vita affinché le brutalità degli eventi storici e privati non la sopraffacciano; la Kahlo, che della sua passione di martire sofferente nel corpo fa stimolo d’arte: sono questi, ciascuno a suo modo, esempi di tenacia e riscatto.
In mano a una scrittrice meno sensibile, questa impostazione si sarebbe potuta prestare a rozze semplificazioni sociologiche o a rigidi schemi retorici ma la forma scelta dall’autrice per questo De mulieribus claris è fortunatamente quella, più abile e discreta, dell’introspezione, spesso soffusa e velata. Più che alle fonti «esterne», infatti, la Rasy s’è attenuta alle fonti prime, più che agli sguardi degli altri a quello che le pittrici hanno rivolto a loro stesse: alle lettere ma, soprattutto, agli autoritratti: quasi avesse voluto, così facendo, rappresentare ciascuna artista – come dice dell’autoritratto della Valadon – «Nuda non solo degli abiti con cui normalmente copre le sue fattezze, ma denudata dello sguardo con cui il mondo maschile l’ha rappresentata». In questo pudore, in questa attitudine umile e flessuosa all’ascolto vi è una delle supreme grazie del libro. Anche in questa grazia, tuttavia, si cela un limite. Nel dipingere la personalità delle sue eroine, la Rasy ha attinto ora ai fatti dell’arte ora a quelli della vita, temperando la famosa obiezione di Proust a Sainte-Beuve nella più conciliante asserzione che l’arte nasce altrove, «in quell’altra vita fatta di tutto ciò che nella quotidianità non trova spazio: amori impossibili, sogni irrealizzati o irrealizzabili, atti mancati fantasie, visioni. Ma è anche vero che tutti questi meravigliosi scarti è la vita a produrli». Un’affermazione sulla quale avrebbe potuto concordare Frida Kahlo ma che sarebbe suonata insolita alle orecchie d’un contemporaneo della Gentileschi, per il quale l’arte non era ancora una messa a nudo dell’artista. Perché Artemisia impastasse delle sue personali angosce la Giuditta e Oloferne facendo del letto su cui giace il generale assiro «il luogo dove s’incontrano e si scontrano gli uomini e le donne, dove talvolta le donne soccombono, come è successo a lei in un pomeriggio di pioggia», sarebbe stato necessario ch’ella possedesse l’ideale d’arte che, due secoli dopo, animerà l’opera di un Füssli, al cui celebre Incubo, sembrano, d’altra parte, meglio convenirsi queste considerazioni dell’autrice sulla Giuditta: «lo sfondo nero, nel quadro di Artemisia, non è un semplice notturno ma un buio più profondo, un’oscurità che viene dall’anima e dall’inconscio stesso delle tre figure rappresentate».
Rispetto a simili accostamenti nell’arte antica ci si potrebbe porre la medesima domanda che si faceva Gombrich in merito all’unità degli stili storici, cioè se tale apparente organicità non fosse dovuta più a una nostra proiezione psicologica che a una effettiva fratellanza formale. Del pari ci si potrebbe chiedere se la particolarità della vita di taluni artisti non ci induca a ricondurre a essa anche alcuni aspetti dell’espressione pittorica che potrebbero trovare spiegazioni altrove. Le maggiori qualità del libro restano piuttosto l’eleganza e la finezza introspettiva di pagine come questa sul ritratto della Morisot alla sorella: «Come nelle rappresentazioni della malinconia, la sua testa è abbassata verso l’oggetto che ha in mano: non un teschio ma un ventaglio, quello strumento che consente alle signore di rivelare il proprio volto e di nasconderlo, oppure di rinfrescarlo se una vampa di ardore e di rossore lo assale. Ma qui il ventaglio non è aperto né chiuso, non ci sono giochi di seduzione, né calore da cui difendersi. Edma lo stringe come un oggetto morto e inutile, e lo guarda come se un’onda di ennui la stesse avvolgendo».