Negli anni d’oro della Galleria L’Attico, in piazza di Spagna a Roma, Bruno Sargentini dedica a Piero Raspi (Spoleto 1926) ben due mostre personali: nel 1960 e nel 1962. Non è l’unico artista del gruppo spoletino tenuto dalla galleria (con lui anche de Gregorio), ma il loro nume tutelare, che ha molto da dire ai giovani pittori, è lo scultore Leoncillo. La mostra Raspi dalla luce al colore Dipinti 1955-2005, curata da Marco Tonelli presso il Casino dei Principi di Villa Torlonia (fino al 6 febbraio), racconta proprio la discesa dell’artista a Roma, dove assorbe come una spugna tutto quello che c’era di nuovo, pur mediando con la lezione bolognese di Arcangeli. Eppure, osservò Carla Lonzi nel 1957, Raspi aveva una visione spaziale con «una verità, quasi a pupilla dilatata, ed una verifica sur nature», che lo staccava dai pericoli del morlottismo.

Fino al 1959, infatti, Raspi è un intenso pittore di esplosioni materiche, che costruisce il quadro con spessi impasti stratificati che compongono immagini, demarcano linee d’orizzonte e scandiscono il ritmo. Sono atmosfere umide, dilatate, quelle dipinte intorno al 1955, che perdurano nei Rami secchi del 1958, dove un groviglio di materia si raggruma al centro della tela e consente un’organizzazione paratattica della composizione. Bisognava però fare i conti con gli informali tedeschi, con Canogar e il gruppo El Paso, tutti passati dall’Attico in quegli anni, che potevano suggerire certi motivi concitati e incontrollati.

E con l’aprirsi del 1960, egli arriva a una maggiore chiarezza: l’impasto si spiana sulla tela, e il ricorso a inserti di carta da pacco aiuta a organizzare la composizione con partizioni più regolari, con un solo intervento materico che si annuncia come un accadimento narrativo in un punto decentrato, accompagnato da ampi spazi scuri, rialzi di materia e graffi filiformi, nei quali Maurizio Calvesi, nel 1962, identifica uno spazio di silenzio tutt’altro che consolatorio, anzi dato da una assenza: un vuoto denso ma non rassicurante, che «declina il tempo al passivo, che nega la storia e l’azione». Qui, insomma, non solo si descrivevano spazi desolati, ma si restituiva un’atmosfera sconcertante perché di un silenzio compatto e impenetrabile. L’urto di Tapiés si è fatto sentire, ma è adesso che entra in gioco Burri, da cui Raspi impara a costruire il quadro secondo la logica del collage, incollando fogli o materiali che hanno un valore strutturante nella composizione: ecco apparire, e siamo nel cruciale 1964, frammenti di stoffe e stracci sporchi, bacchette di legno, ma soprattutto frammenti di scritte. Raspi capisce di dover rendere la composizione ordinata, quasi fosse tentato di riflettere sulla Sezione Aurea: incollare fogli di carta da pacco uno accanto all’altro, come faceva Schifano nello stesso periodo, serve a dare una griglia regolare di fondo, di cui rispettare la modularità anche quando si concede improvvisi sprazzi di luce, o spiazzanti interventi di gesto.

Eppure non sarà quella la via che lo condurrà al monocromo, alle grandi tele bianche o rosse marezzate con una materia stesa con pennellate e incisioni regolari: da Schifano attinge frammenti di segnaletica urbana a campiture larghe e piatte. Ma quella della Pop non era la sua partita. La scoperta dei colori sgargianti arriverà negli anni maturi, modificando un’indole che fino al 1968 aveva preferito toni attutiti: è qui infatti che si esprime la sua vera vocazione. Estraneo alla retorica dei gesti concitati, a cui preferisce la quiete dimessa della natura silente, e fra strappi e increspature di superficie, individua spazi di intensa poesia.