I 110 anni dalla nascita di Renato Rascel (Ranucci all’anagrafe), sono l’occasione per ricordare uno degli artisti più eclettici che il nostro paese abbia avuto lungo tutto l’arco del Novecento. Circa un secolo fa infatti, bambino, Rascel inizia la propria carriera in ambito musicale, esibendosi nelle corali religiose per poi sterzare bruscamente verso generi profani. Il passaggio da Bach al jazz conduce «Piccoletto» o «Renatino tuo», con la giusta distanza storico-critica, a essere annoverato tra le grandi figure della creatività italiana, in grado di abbracciare ogni arte performativa (teatro, cinema, radio, televisione, pubblicità) nei ruoli via via di interprete, one-man show, autore, funambolo, proto-cabarettista, passando tranquillamente dalle sfere basse (popolaresche) a quelle alte (nobili) della cultura moderno-contemporanea. Tale adeguatezza, che vive grazie a un riuscito mix di virtuosismo, eccentricità, guitteria, trova positiva conferma e piena realizzazione anche in campo musicale.

La copertina del recente libro di Elisabetta Castiglioni dedicato a Renato Rascel

 

SOTTOVALUTATO
Ma il giovanissimo jazzman o il maturo musicista – eccetto il recente studio Renato Rascel. Un protagonista dello spettacolo del Novecento di Elisabetta Castiglioni per Iacobelli Editore, forse la monografia definitiva sull’espressività dell’uomo e dell’artista – è ancora in parte sottovalutato, mentre, a un’attenta disamina, si vede subito che i generi da lui maggiormente frequentati – varietà, avanspettacolo, rivista, musical – condividono a fondo gesti, parole, dialoghi, pantomime, balletti con il mondo delle sette note; è tuttavia il «mestiere», di volta in volta o parallelamente, praticato di cantante, strumentista, bandleader, ballerino, paroliere, compositore, lungo l’intera settantennale carriera, pur senza mai dedicarsi a un ruolo specialistico, fanno di lui un musicista completo, a partire dagli esordi, in cui affonda le radici addirittura nella classica e soprattutto nel jazz.
Renatino ha solo dieci anni quando esordisce, nel Coro della Sistina diretto da monsignor Lorenzo Perosi, dal quale si stacca radicalmente per abbracciare lo scatenato dixieland delle primissime orchestrine hot nella Roma non ancora completamente fascistizzata: all’inizio è batterista con la formazione degli Arcobaleno tra le balere della Capitale, quindi diventa vocalist e tip tap dancer con il nickname di Sonny Boy (mutuato dal primo film sonoro americano The Jazz Singer), mentre la fine degli anni Venti lo si vede in una fotografia suonare il banjo nel sestetto della Lulu Gould Jole Majestic Band: sulla grancassa è scomparsa la scritta Jazz Band, che il regime fa sostituire con la più innocua e meno «negroide» parola Band, prima di passare a Banda nel periodo di autarchia bellica (anche lui durante la guerra dovrà formarsi Rascele con la «e» finale per italianizzare in toto il cognome d’arte, come accade anche per la collega Wanda Osiris divenuta Vanda Osiri).
Il jazz di Renato – detto anche Ranny o Harry Laven – si esterna in formazioni celebri, nell’orchestrona di Piero Pieri oppure assieme alla vedette Jale Naghel, di volta in volta, intento a cantare, suonare, danzare. Ma, per guadagnarsi il pane, abbraccia un’altra grande moda dell’epoca, il tango, nelle vesti di «Renatìn cantante tipico argentìn», inforcando pure la chitarra e ovviamente imparando i lascivi passi argentini con la giusta ricetta di umorismo e grottesco: la parodia del gaucho, infatti, sarà una costante persino nei decenni a venire (Caroselli compresi). Inoltre, sempre nel decennio formativo, lo sfruttamento dei repertori divistici, dalla canzone fiorentina di Edoardo Spataro alla chanson française di Maurice Chevalier, spesso come fantasista in compagnie di quarto ordine, servirà nell’immediato futuro a un bagaglio sonoro, che gli consente di elaborare, con fluida semplicità, una forma canzonettistica moderna.
Il «sincopato tricolore» alla Rascel dunque da un lato risulta perfettamente congeniale al teatro leggero poi praticato fino agli ultimi giorni, dall’altro potrebbe vivere di una propria autonomia, sebbene né Rascel né colleghi più o meno illustri, salvo un paio di casi, sapranno o vorranno sfruttarne il potenziale inventivo. Sta di fatto che dei 215 brani di, per, con Renato, alcuni possono ritenersi ormai «classici» di un songbook pre e para cabaret, dove l’interpretazione è comunque visceralmente legata al personaggio e dove il retaggio del sound afroamericano è inconfondibile, anche se talvolta bilanciato da un melodismo soffusamente italico.

LA CONSACRAZIONE
I primi tre successi discografici, dopo quasi un ventennio di incubazione artistica, giungono tra il 1953 e il 1956 rispettivamente con Il corazziere, È arrivata la bufera e Arrivederci Roma. I primi due, nati a ridosso della seconda guerra mondiale curiosamente dai testi antimilitaristi (benché letti come tali solo a posteriori), hanno notevoli spunti sia ritmici sia caricaturali: il primo è di fatto un boogie e al contempo la parafrasi di Mamma mi ci vuol la fidanzata (1942) di Natalino Otto, tra i pochi crooner nazionali, ma il cui stile è qui ribaltato non solo dal testo, ora nettamente comico, ma anche da un’atmosfera jazzy più sbarazzina e metalinguistica: Rascel si rivolge direttamente al pubblico come nella drammaturgia epica di Bertolt Brecht e Kurt Weill. Il secondo brano è una marcetta, scritta di getto dallo stesso Renato, dopo un colloquio in Africa con il gerarca Italo Balbo in disaccordo con Mussolini sulla guerra e stranamente abbattuto dal «fuoco amico» qualche mese dopo: notevole resta la parodia della parodia in tv ad opera di Vittorio Gassman che declama e glossa il testo al pari di una lirica di Carducci.
Nel 1954 arriva il capolavoro internazionale, da Rascel composto in forma di beguine, insomma una ballad mid tempo, Arrivederci Roma, con il testo dei commediografi Garinei e Giovannini, che anticipa di circa un lustro la Dolce Vita felliniana e che fotografa, pur adoperando stereotipi cartolineschi, una metropoli in progress, di lì a poco la Hollywood sul Tevere, tra via Veneto e Cinecittà: non a caso il pezzo ottiene un exploit cosmopolita e a proporlo, oltre il mood tenorile dell’italoamericano Mario Lanza, sono altri due «paisà», Dean Martin e Connie Francis, che meglio di tanti altri, «traducono» in lounge-swing la loro epocale versione, facendo dell’italian song un nuovo genere moderno americano, sia pur di effimera durata.
Senza nulla togliere a Romantica (1960) capostipite del trend «urlatori» per merito di Tony Dallara (accoppiata vincente sanremese) o Alleluja brava gente (1970) alla ricerca del rinnovamento nel teatro musicale, sono altri due gli episodi che reiterano l’amore del jazz di Renatino; e sono due Caroselli della serie A scuola di danza (1959-60) assieme alla ballerina comica Dori Dorika Vilella; nel primo, Rock and Roll, il Piccoletto «inventa» addirittura la break dance, memore degli amati Nicholas Brothers ammirati trent’anni prima; nel secondo, Charleston, la buffa introduzione parlata riassume un credo: «(…) Teoria: il charleston è un ballo che ha un ritmo a due tempi ma ritardati, anzi di solito si cerca di recuperare qualche minuto incominciando subito dal secondo tempo. Pratica: in pratica è molto più facile». E poi attacca a cantare Lola (That’s a Plenty) da par suo: un musicista da non scordare, accanto a figure come Gorni Kramer, Lelio Luttazzi, Armando Trovajoli, Renato Carosone, Fred Buscaglione, Nicola Arigliano che, in tempi non sospetti, sposano la causa del jazz portandola talvolta alla ribalta europea e mondiale.