Poche famiglie hanno avuto il coraggio di avventurarsi per le strade di Beit Lahiya e Jabaliya , dopo il “rassicurante” annuncio giunto dal generale Yoav Mordechai, dell’ufficio del portavoce militare israeliano. «Le popolazioni di Beit Lahiya, Atatra, Jabaliya e altre località del nord della Striscia di Gaza, ad eccezione di Beit Hanoun, possono rientrare alle loro case», hanno rilanciato ieri siti israeliani e palestinesi. Chi poteva fidarsi dopo le stragi dell’ultimo mese e senza un accordo di cessate il fuoco a garanzia ai civili. Alle sei di sera, con il sole che calava, solo poche decine di famiglie erano in marcia verso le case delle zone di Beit Lahiya e Jabaliya. Noura, con i quattro figli piccoli su di un un carretto tirato da un asino stanco, non avrebbe passato la notte a casa, rimasta miracolosamente in piedi. «Abbiamo paura – diceva – gli israeliani potrebbero cambiare idea a cacciarci di nuovo via a cannonate.

E poi anche se la nostra casa non è stata distrutta, intorno a noi ci sono solo macerie, non c’è acqua, elettricità. Meglio rimanere nelle scuole (dell’Onu, dove sono alloggiati circa 230mila sfollati, ndr) dove almeno arrivano degli aiuti, possiamo mangiare. Non so quando e se riusciremo un giorno a vivere di nuovo a Beit Lahiya».

L’emergenza umanitaria segue sin dal primo giorno l’offensiva di terra israeliana. E superarla sarà una impresa che impegnerà per anni le agenzie internazionali, le ong, le associazione di assistenza sociale. Una crisi umanitaria «pianificata», commentano non pochi palestinesi, nel quadro di un tentativo (fallito) da parte di Israele di innescare una «sollevazione» contro Hamas. Chi ha ancora una casa nel nord di Gaza è come se l’avesse perduta nei bombardamenti, come gli altri 5 mila edifici distrutti da cannonate e raid aerei in 26 giorni. Almeno altre 10-11 mila abitazioni hanno subito danni gravi. Un problema di proporzioni gigantesche sul quale grava un pesante interrogativo: Israele si lascerà dietro una zona cuscinetto larga fino a 3 km, entro la quale i palestinesi di Gaza non potranno entrare? Se sono accurate le mappe diffuse da Ocha, l’ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu, l’esercito israeliano adesso occupa il 44% della Striscia di Gaza.

Ieri sera il quotidiano israeliano Haaretz aveva annunciato un «ritiro parziale dalla Striscia». Ma subito dopo il premier Netanyahu in conferenza stampa è stato chiaro: «L’offensiva continua fino alla completa distruzione dei tunnel». Ecco la soluzione che il premier Netanyahu e i comandi militari di Israele hanno in mente, almeno per il prossimo futuro, in alternativa a un accordo di cessate il fuoco che l’opinione pubblica israeliana, in larga parte, non vuole. In buona sostanza Israele ritirerebbe unilateralmente uomini e mezzi corazzati da Gaza – ha già cominciato a far arretrare una minima parte dei suoi blindati – impedendo allo stesso tempo ai palestinesi di rientrare stabilmente in questo 44%. Una situazione sospesa, indefinitiva, di guerra a bassa intensità, che le forze armate israeliane sfruttarebbero per lanciare attacchi occasionali o sistematici all’interno del territorio palestinese per «smantellare le strutture del terrore» rispondere con il massimo della forza ad eventuali lanci di razzi e impedire all’ala militare di Hamas di riorganizzare le sue posizioni più a ridosso delle linee di demarcazione tra Gaza e Israele. Ciò consentirebbe al governo Netanyahu di non firmare quell’accordo di cessate il fuoco con i palestinesi che non ha il consenso dell’opinione pubblica israeliana.

È passato un mese dall’inizio di «Margine Protettivo» e larga parte degli israeliani continua a chiedere attacchi devastanti contro Hamas, cioè Gaza e i palestinesi, nonostante l’alto numero di civili uccisi. Ieri l’Unicef ha riferito che dei 1.655 morti di Gaza, 296 erano bambini o adolescenti. Eppure molti israeliani non ritengono credibili i dati delle Nazioni Unite, li credono gonfiati ad arte per fare il gioco di Hamas e dei palestinesi. Sulla stampa gli editorialisti più radicali scrivono che anche la terza guerra in cinque anni con Hamas non ha avuto come risultato l’annientamento dei combattenti islamisti e delle altre formazioni armate palestinesi, sollevando dubbi sulla politica di Netanyahu che avrebbero voluto persino più brutale. Lo storico Benny Morris, divenuto negli ultimi anni uno dei maggiori esponenti della destra israeliana, ha scritto che Hamas sarà sconfitto… «alla prossima guerra», per sottolineare l’occasione perduta «stavolta», di cambiare totalmente la faccia di Gaza. Un commento sul Jerusalem Post offre la «via d’uscita»: rioccupare Gaza e «ricollocare», ossia deportare, l’intera popolazione palestinese. Solo così, scrive l’autore, si metterà fine al «problema Gaza».

L’Esercito israeliano ha realizzato questo desiderio del pugno di ferro. La violenza dei bombardamenti e dei cannoneggiamenti ha raggiunto il suo punto più alto due giorni fa a Rafah. Nella città sul confine con l’Egitto, è stata superata qualsiasi remora. A spiegarlo è stato ieri il giornalista Avi Issacharoff, non noto come un pacifista, sulle pagine digitali del Times of Israel. Quando venerdì i comandi militari si sono resi conto della (possibile) cattura del tenente Hadar Goldin, ha scritto, «l’Esercito ha cominciato a mettere in atto azioni volte a impedire ad Hamas di scappare da Rafah con Goldin. Ha preso di mira edifici e qualsiasi auto che circolava in zona – inclusi gli automezzi di soccorso diretti all’ospedale Abu Yusef al Najar – e ha distrutto case che (secondo i comandi israeliani, ndr) potevano avere punti di accesso con il tunnel sotterraneo (usato dagli uomini di Hamas per portare via Goldin, ndr)». Fuoco indiscriminato. Per i civili di Rafah si sono aperte le porte dell’inferno. Per nove ore sono cadute sulla parte orientale della città cannonate e bombe. I morti sono stati oltre cento, le distruzioni immense. Una rappresaglia compiuta mentre la popolazione affollava le strade credendo che fosse in vigore il cessate il fuoco. Nel pomeriggio l’esercito ha ordinato alla popolazione di chiudersi nelle case, per aver salva la vita. Fra gli obiettivi colpiti l’ospedale al-Najar che era stato fatto sgomberare e altre infrastrutture. Ieri a Rafah sono mancate del tutto la corrente elettrica e l’erogazione dell’acqua, si faceva la coda per prendere dai serbatoi l’acqua purificata. All’orrore venerdì molti hanno provato a sfuggire rifugiandosi nelle scuole pubbliche, altri si sono messi in marcia verso ovest in cerca di scampo. Un fiume umano, in parte diretto al valico di Rafah, trovandolo inesorabilmente chiuso per decisione delle autorità egiziane. Quelle sbarre abbassate davanti a civili inermi spiegano bene quanto siano ampie le responsabilità dell’Egitto in questa nuova tragedia palestinese.

È ridicola l’esortazione lanciata ieri dal Cairo a Israele ad aprire i valichi perché Rafah è «sempre aperto» per il passaggio di feriti e aiuti umanitari.

La cattura di Hadar Goldin continua a generare scetticismo proprio a Rafah. Molti la ritengono inventata da Israele, allo scopo di svuotare la città e creare una zona cuscinetto lungo il confine con l’Egitto, impedendo ai palestinesi di scavare nuovi tunnel tra Gaza e l’Egitto. «Se davvero Hamas avesse catturato un ufficiale israeliano si sarebbero viste feste», commentano alcuni. L’accaduto ha cambiato tutto sul tavolo della diplomazia. Senza la restituzione del soldato, ha detto ieri Netanyahu, non ci sarà un accordo di cessate il fuoco ma solo il ritiro unilaterale e parziale di Israele che, di fatto, vuol dire una guerra a bassa intensità sul lungo periodo. Nessuno sa quando e se avrà inizio un negoziato. La delegazione palestinese, senza rappresentanti del movimento islamico, è partita per il Cairo dove non ci sono rappresentanti israeliani. Le Brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato di Hamas, non confermano la cattura del soldato israeliano che, ripetono, potrebbe essere rimasto ucciso assieme ai combattenti che lo avevano fatto prigioniero nei pesanti bombardamenti su Rafah. La morte continuerà ad avvolgere la Striscia di Gaza che invece chiede di vivere. In meno di un mese l’offensiva militare israeliana, che ora assume una nuova forma, ha ucciso almeno 1655 palestinesi e ferito altri 8.500. Sono morti 63 soldati e tre civili israeliani.