Con la consueta acribia, ma amorosa, Giuseppe Appella – coadiuvato da Bruna Fontana, sostenuto dal Centro Studi Mafai Raphaël – ci consegna, dopo anni di cantiere, il Catalogo generale della scultura di Antonietta Raphaël (Allemandi, pp. 230, euro 90,00, con quindici magnifiche riproduzioni a piena pagina). In questo storico dell’arte italiana del Novecento le carte si intrecciano in genere alla vita vissuta, e qui più di sempre, rappresentando la Raphaël, per lui, una specie di scena primaria: frequentava da giovane lo studio su tre piani di via Orti della Farnesina, dove Antonietta, nel 1957, a sessantadue anni, aveva trasferito l’intero carico delle sue aspettative, della sua ostinazione a creare compressa dall’inquietudine; si soffermava, nello spazio più piccolo, riservato alle utilità domestiche, sul pianoforte, sul candelabro a sette braccia, sull’«ultima inafferrabile testa di Giulia»; nella grande specchiera del piano alto, dall’alto soffitto, egli vedeva doppiata la scultura, mentre lei «lavorava gesso e cemento, legno e pietra, e disegnava senza interruzione, pensando con una matita in mano, con lo stesso precetto interiore degli anni venti: studiare/copiare/sognare/lavorare».
L’esperienza di atelier
Questa intimità con il mondo della Raphaël, che lo ha condotto, da subito, a un rapporto diretto con l’opera nel suo farsi, pentimenti compresi, ha modellato il sistema conoscitivo di Appella, mai disgiunto, come indicano i successivi sodalizi con altre figure di spicco (restando nella scultura: Melotti, Consagra, Azuma), dall’esperienza di atelier. Che è un dato di qualità discriminante nel determinare il canone di quell’artista attraverso la stesura del catalogo ragionato dell’opera. Per la plastica, sappiamo, il problema cruciale è distinguere le opere ‘tirate’ sotto la sorveglianza dell’artista e quelle post mortem e, tra queste, le opere che rispondano a criteri di realizzazione conformi. Ci si può fidare, in questo senso, dell’occhio di Appella, allenato come è dalla consuetudine materiale con l’oggetto, che alle volte ha persino visto nascere. Anche nel caso della Raphaël scultrice, del profilo di base che era necessario restituire a un percorso non privo di complessità e di mutamenti, di rotture perfino, c’era bisogno di un grado raffinato di discriminazione, senza scherzare: ed ecco allora questo volume, da cui si può ripartire per affrontare in modo più strumentato certe zone di opacità e di domanda che ancora restano nella lettura storico-critica: relativamente, per esempio, al gioco delle influenze nel vasto arco dell’arte europea, da Epstein a Maillol a Lehmbruck.
Ci si può chiedere se, nata pittrice dal seno delle memorie orientali (l’infanzia chassidica in Lituania) messe a disposizione, operativamente, di un espressionismo Ecole de Paris reso singolare dall’inquieta naïveté di autodidatta (quel che affascinò, quando giunse a Roma alla fine del 1924, il futuro compagno Mario Mafai e, suo fratello germano, Scipione Bonichi), Antonietta Raphäel abbia subìto poi, nel convertirsi alla scultura nel ’33 (anno di realizzazione, in gesso, bronzo, infine porfido, di Miriam dormiente), un improvviso richiamo altro o se invece non venisse a manifestare, attardatamente, una preferenza per tempo coltivata, come indicherebbe la frequentazione a Londra, a partire dal 1917, di Jacob Epstein. In questa direzione ci porta Giulia Mafai, terzogenita di Antonietta: «I ritratti di Epstein, costruiti asimmetricamente, in modo da variare continuamente, a seconda della prospettiva, l’immagine che ne deriva, verranno assimilati dalla memoria prensile della giovane ‘allieva’ e restituiti in seguito nei ritratti delle figlie e degli amici» (da La ragazza con il violino, Skira 2012). Giuseppe Appella, a proposito di due dipinti del ’28 ora proprietà della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Simona in fasce e Busto di donna (Ritratto di giovane donna su fondo rosso), si richiama a un’intuizione di Maurizio Fagiolo per indicare nella pittura un luogo di apprendistato alla plastica, di cui essa «annuncia la solida presenza»: «i due dipinti non si differenziano molto da una metope di un tempio greco-romano». Il riferimento alla metope non è incidentale: Appella presta grande attenzione a quello che possono avere significato, per la Raphaël, nei secondi anni venti a Roma, le visite ai musei di antichità, innanzitutto il Museo delle Terme (a un tiro di schioppo dalla dimora di via Cavour e dallo studio alla Pensione Salus di Piazza Indipendenza), che dal 1928 si vide arricchito di diciotto nuove sale. Egli traccia anzi una specie di diagramma degli esiti che hanno le variate frequentazioni dell’Antico sullo svolgersi scultoreo di Antonietta, dall’arcaismo iniziale – la tenera frontalità di un capolavoro, quasi altorilievo, come le Tre sorelle (1933-’39) –, alla naturale conclusione di questa fase stabilita dall’«atteggiamento mite e al tempo stesso solenne» de La sognatrice (1946), alla maniera aperta e drammatica, lavorata sulla materia, con foga quasi informale, e ricerca della vibrazione luminosa di superficie, della produzione matura e ultima.
Il modello di Aristide Maillol
Si è detto pittura come preparazione alla scultura, ma una interpretazione non continuista è venuta da Fabrizio D’Amico (lungo i decenni tornato a più riprese sull’argomento) nel rilevare come la Raphäel, esordendo nella plastica (ripetiamolo: 1933), realizzi una vera e propria cesura con il prima, addirittura «rifondando per intero – egli ha scritto –la propria esperienza artistica». Da questa posizione consegue l’importanza assoluta, nel percorso di Antonietta, della residenza parigina dei primi anni trenta, dove deve aver fatto esperienze visive radicalmente diverse da «quanto aveva a portata d’occhio sulle due rive del Tevere», compreso il lirismo umoroso e fantastico che ella stessa vi aveva iniettato. Facendosi schietta interprete di quella linea della scultura novecentesca che Werner Hoffmann ha definito, basandola su Aristide Maillol, «conservazione dell’immagine umana», la Raphäel è proprio all’artista dei Pirenei orientali che si appoggia per serrare le sue emozioni entro il guscio della materia, articolarle in una centripeta e conchiusa risoluzione figurale. Si distaccherà abbastanza presto da questo alto modello di classicismo mediterraneo per una più libera espressione di pathos, ma esso rimane fondativo.
Pur ammirando Marino Marini, la Raphäel è quanto di più distante dalla sublimità formalistica di quella lezione. La sua costruzione di miti non prescinde mai dalla vita reale e dalle sue animosità: incanto, trepidazione, angoscia. La Fuga da Sodoma, modellata e gettata in cemento grigio nel 1939, ripresa e portata a conclusione, con la fusione in bronzo, nel ’69, è forse l’esempio più straziante di questa commistione conoscitiva di mito e realtà: una figura biblica che si carica di tutte le ambasce del secolo, e di quelle personali dell’artista. In questo senso, la linea italiana lungo cui disporre Antonietta (se proprio si vuole scartare dall’idea della «marziana», abbastanza ben referenziata) è quella Martini-Mirko: dovette riflettere non poco sulle sculture anni trenta di Mirko, «relitti di scavo piovuti davanti allo spettatore da età immemorabili, corrosi dalle vicende geologiche e dalla storia» (Corrado Maltese).
Il riferimento costante, nei soggetti, al pantheon familiare dice in modo più diretto l’esigenza di stare nel mondo, di guardarlo secondo un personalissimo codice degli affetti, su cui insiste, nella sua lettura, Appella. Il rifiuto di ogni forma di sideralità metafisica, che si può leggere anche come lontananza dalla cultura dominante in Italia negli anni trenta, è documentato meglio non si potrebbe dal modo in cui Antonietta piega a sé la poetica del frammento: si rifiuta di diventare sacerdotessa di un culto che, di fatto, disimpegnava l’arte italiana nell’ineffabile, nel richiamo ancestrale, ma ne usa la modalità formale, ne trae suggerimenti operativi.
E in che direzione? Appella: «Sono facilmente discernibili gli episodi in cui alla statua in toto si accompagna un suo frammento che accentua il carattere meno realistico della cosa rappresentata». È il caso, tra gli altri, del Ritratto del capitano di lungo corso, 1942. Nel meraviglioso gesso patinato e ‘sgraffiato’ Mafai con gatto, sempre del ’42, non di frammento in senso proprio si tratta, ma, allo stesso modo, di un’accentuazione provocata dall’isolamento di una parte, giacché la mano destra sul cuscino, piatta all’altezza della pancia, si stacca per farsi diapason espressivo, luogo dell’imponderabile nascosto nel seno della realtà più prossima, dell’immagine più amata. Non frammentismo, dunque, ma frammentarietà, scomposizione qualitativa della visione, in funzione profondamente antiaccademica: e rivolta morale, dal sommesso delle pareti domestiche.
È stato richiamato il nome di Lehmbruck; si possono aggiungere, fatta la tara alla gravosità dell’impegno sociale, i nomi di Barlach e della Kollwitz. In ogni caso espressionismo, ma di tutt’altra pasta da quello acidulo, sognante, fantasticamente impacciato nel bric-à-brac ebraico-orientale delle tele. E qui torna il problema: pittura luogo dell’evasione versus scultura luogo della realtà? Se ne può continuare a discutere, ma adesso, con un prezioso strumento in più, il catalogo di Giuseppe Appella.