«È per caso falso il mio oro? Non l’hanno mica esaminato una volta sola, gli esperti, saranno tre o quattro le volte. È oro, e di quello vero, oro puro, oro vergine; è oro che vale molto di più di quello del governo. Ve lo dico io: il governo è invidioso. Le sue leggi sono buone per lui… perché non potremmo organizzarci, qui da noi, una nostra brava vita fatta su misura, con la nostra propria moneta, e non la loro?»: risiede dentro questa logica anarchica, rivoltosa e irriducibile tutto l’agire di Maurice Farinet.

La sua sfida ai codici borghesi, così determinata e radicale, ha una sostanza utopica e politica, sebbene la sua primitività possa indurre al sospetto che si tratti piuttosto di conveniente astuzia, di strafottente tornaconto personale.

Ma egli, nel suo disegno, sanguina di un desiderio che solo in piccolissima parte lo riguarda e lo investe (certo: non darsi per vinto, non arrendersi ai gendarmi, non finire in prigione nemmeno per un giorno o per un’ora, sottrarsi a ogni patto con le autorità costituite della sua regione). Sanguina a causa di un sogno e, precisamente, del sogno di una cosa.

La sua ardimentosa selvatichezza, la forza fisica che lo sostiene nella fuga e nella clandestinità – in mezzo alle montagne del Cantone di Vaud, tra le rocce, nel paesaggio che appare aspro almeno quanto il carattere di chi lo abita –, lo eternano, ancora ventottenne, ancora in vita, già nella leggenda, in un mito collettivo destinato a durare per sempre, tramandato a voce dai contemporanei ai posteri di quella stessa comunità.

E, insieme al suo, il mito della fedele e anch’essa ostinata Joséphine – cieca a tutto tranne che al proprio destino – che lo segue, lo insegue, lo stana e lo incoraggia alla resistenza per, infine, accanto a lui sedere in vetta all’Olimpo dei ribelli e degli incorreggibili, di coloro i quali possiedono la felice e tragica ottusità degli inguaribili. Farinet vive e agisce nello spazio sterminato di un tempo che ancora non conosce la storia (quella, come si usa dire, con la esse maiuscola), è anche per questa ragione che egli non è e non può essere un rivoluzionario.

Incipit memorabile

Charles Ferdinand Ramuz pubblicò Farinet, il falsario (Jaca Book «Calabuig», traduzione dal francese di Cesare Lupo, pp. 196, euro 18,00) nel 1932, un anno prima dell’uscita di Derborence, il suo romanzo più celebre e comunemente ritenuto come il suo capolavoro, con quell’incipit che resta alla lettera memorabile a chi lo abbia letto e che all’incirca racchiude in sé la chiave esatta di un’andatura, di un sentimento e in sostanza di una cifra che poi risultano (prima e dopo) costanti nell’opera di questo scrittore nato a Losanna nel 1878 e morto a Pully nel 1947.

Eccolo quell’inizio così netto ed esemplificativo: «Derborence, la parola suona dolce; ti suona dolce e un po’ triste in testa. Incomincia quasi dura e accentuata, poi esita. Diventa indecisa, rimane sospesa nell’aria, mentre te la canti ancora, Derborence; infine si spezza di colpo, come se volesse così significare la rovina, l’isolamento, l’oblio».

Il tono, dunque, che è possibile ritrovare in quasi tutte le opere narrative di Ramuz, prima e dopo Farinet ou la faisse monnaie e Derborence, dall’esordio di Aline nel 1905 a Jean-Luc perseguitato (1908), da La vita di Samuel Belet (1913) a Paura in montagna (1925), da Se non tornasse il sole (1937) e La guerra ai documenti (1942). D’altronde fu lo stesso Ramuz a suggerire a Valeria Lupo, la traduttrice italiana del romanzo (Derborence venne stampato da Bompiani, l’autore ancora in vita, nel 1942), che «le tout est de trouver l’inflexion».

Ma non c’è ovviamente soltanto questo elemento. La croce (prima della delizia) per i suoi traduttori è stato e continua a essere l’impasto linguistico in specie dei dialoghi e dei pensieri dei personaggi, vale a dire i dialettismi e le ripetizioni, le cacofonie e il procedere per ellissi, per mezzo di una sintassi rotta, franta, sospesa e dell’utilizzo simultaneo, a strappi sintattici, dei più diversi tempi verbali. Un composto complicato e pietroso che più tardi incontreremo ancora, ad esempio e per rimanere nel recinto della tradizione elvetica, nei libri di Oscar Peer, di Maurice Chappaz e di Arno Camenisch.

In Ramuz l’alternanza di timbri realistici, bassi e sporchi e di furenti accensioni liriche appare senza soluzione di continuità, quasi fosse un passaggio naturale e addirittura sorgivo e a seguire un imperativo morale, di verità oggettiva, indiscutibile e inscindibile da quel piccolo spazio geografico posto al di sopra del Rodano e tuttavia così ricco di histoires vraies che non possono non contenere in sé un portato arcaico, biblico (giusto per riprendere una efficace suggestione di André Gide).

Tra «cadute di piombo e riprese di una levità mattinale», come ha osservato Italo Vanni, secondo il quale in ogni personaggio e in ogni immagine di Ramuz la «speranza dell’altezza» si rivela come un dato definitivo e dirimente (come, tanto per ricordarlo, nel racconto di Ludwig Hohl intitolato La salita). Cosa muove infatti la massa di contadini nel 1802 (parliamo de La guerra ai documenti) a dare l’assalto ai castelli dei signori? Oppure, in Jean-Luc perseguitato, cosa spinge il protagonista a sopportare i continui tradimenti della giovane moglie e poi, ormai impazzito al pari di un santo cieco e visionario, a purificare il mondo da ciò che crede gli sia stato ingiustamente tolto? L’altezza è la nemesi, una sorta di redenzione o di resurrezione, di primitivo e scabro sentimento messianico. Questo dato, severo e complesso, viene espresso appunto mediante uno stile «dissonante e asimmetrico» (la definizione è di Giovanni Raboni), uno stile che forse deve molto al proficuo incontro e alla collaborazione, nei suoi anni parigini, con Igor Stravinskij alla stesura de L’histoire du Soldat. Come fece con molta acutezza notare Piero Bianconi nella prefazione alla sua versione di Jean-Luc perseguitato apparsa in un volumetto della vecchia Bur nel 1961, la novità di Ramuz, «il suo modo personale e inconfondibile è una lingua-gesto, una lingua-seguito-di-gesti, lenta di ritmo, piena di ripetizioni, di insistenze, di ritorni, di correzioni; nella sua impacciata (apparentemente) lentezza aspira a un massimo di aderenza a una realtà esterna, visiva come se girasse intorno alle cose (e ai sentimenti, invero assai primordiali), le soppesasse, le considerasse da tutte le parti; un critico acuto, il Thibaudet, ha parlato di un cubismo di Ramuz»: elemento quest’ultimo che lo stesso scrittore ammetteva, riconoscendo il proprio debito verso la pittura.

Potenza espressiva

Farinet, il falsario – che venne stampato per la prima volta in italiano nel 1980 sempre da Jaca Book, casa editrice a cui occorre riconosce uno straordinario impegno nel proporre e nel riproporre periodicamente i libri di Ramuz a partire dalla seconda metà degli anni settanta: oltre ai titoli già citati, serve aggiungere La guarigione delle malattie del 1917, I sogni in mezzo a noi (’19), La bellezza sulla terra (’27) e La pace del cielo e altri racconti; senza dimenticare Addio a molti personaggi del 1914 e Adamo ed Eva (’32), entrambi pubblicatoi da Armando Dadò, La separazione delle razze (’22) e La paura in montagna (’25), usciti per i tipi dell’editore Casagrande di Bellinziona; e infine il saggio Statura d’uomo (’33), tradotto nel 1947 da Franco Fortini per le Edizioni di Comunità – Farinet il falsario, si stava dicendo, è un romanzo che esemplifica al meglio le caratteristiche (sulle quali qui si è voluto insistere) di questo scrittore, di questo classico in ombra la cui potenza espressiva sembra inversamente proporzionale alla limitatezza geografica del territorio che per sempre è rimasto al centro della sua immaginazione e della sua ispirazione.