Le intersezioni fra visualità e visionarietà annodano i fili dei saggi raccolti in Femminismi Futuri, a cura di Lidia Curti, con Marina Vitale e Antonia Anna Ferrante (Iacobelli Editore, pp. 215, euro 18). In un’ottica femminista, prima ancora di cosa aspettare, che visione adoperare adesso diventa fondamentale. I futuri si costruiscono a partire da come scegliamo di vedere ciò che vediamo.

LE SCRITTURE contenute nel volume problematizzano la trasparenza e ci posizionano, materialmente e per relazioni, dentro ciò che osserviamo ora, invitandoci a non cedere alle lusinghe dei fatti e dei dati. Sono i corpi a radicare e muovere lo sguardo; sanno la cancellazione e la scomparsa, sono visitati dal passato e si contaminano nelle humusità – direbbe Donna Haraway, che aleggia in tutto il libro – sbriciolate del presente, (si) fanno archivi viventi, assemblano retrospettive impreviste (Alessandra Ferlito), tessono minime ragnatele del vivere che fanno futuro. Un futuro come processo, piuttosto che orizzonte – per dirla con Olga Solombrino – che mette in moto contrattempi in grado di toccare un altrove già colonizzato, che muove in direzioni meno distruttive e immaginari tecnologici meno omogenei, dove il passato è sempre mediato, mai recuperato e l’umano ibridato invece che purificato, come nello xenofemminismo (in Tiziana Terranova), nell’afrofuturismo femminista – restituito da Curti – e nel solarpunk – da Roberta Colavecchio. Il futuro si schiude in nuovi ambienti di transindividuazione digitale (sempre Terranova, riprendendo Simondon) e multispecie, che segue «approcci di contagio» biopolitici e connessi capaci di alimentare le circolazione degli affetti e dei corpi tra le griglie fitte delle piattaforme proprietarie (Antonia Anna Ferrante). Le autrici intrecciano spazio-tempi impregnati di virtualità, non utopie, che affiorano senza linearità, progressioni o definizioni necessarie.

RIVEDERE E RI-MEMORARE, come spiega Curti sulla narrativa di Toni Morrison, è uno dei modi per attivare circuiti differenti per la produzione di storie e la riproduzione di corpi. L’artista palestinese Larissa Sansour immagina uno scenario post-fattuale in cui sia possibile pilotare l’archeologia a ritroso e così decolonizzare il passato rivendicando ciò che sta sparendo. Ripartorire il passato per generare un altro futuro è invece il progetto della programmatrice protagonista del film Conceiving Ada di Lynn Hershman Leeson (Terranova), che vuole far nascere da sé una nuova Ada Lovelace e inaugurare un tempo generativo fuori dalla filiazione, poi attualizzato negli allacci della madre-hub della serie tv sense8 (Ferrante).
La presenza dei semi e del seminare, nel libro, da quelli piantati dall’artista brasiliana Maria Thereza Alves o dalla protagonista de La parabola del seminatore di Octavia Butler (Curti) a quelli custoditi nell’archivio biosociale dell’antropologa e artista palestinese Vivien Sansour (Solombrino), segna l’emergere di una storia interstiziale, cui basta appena il destino fotosintetico al quale aspira anche la protagonista del romanzo La vegetariana di Han Kang (Silvana Carotenuto), e che ammalia i personaggi iper-empatici di molti racconti della fantascienza femminista.

IN UNA TERRA che non ingloba ma accoglie, che cura la fragilità e lascia fiorire le differenze, disseminare vita ciclicamente, sospendere l’ineluttabile, è ciò che fanno i semi: non far smettere di vivere la vita e, anzi, ricapitolarla, così da mantenere aperta la scrittura dei territori tracciati, soprattutto quelli la cui cancellazione precede addirittura l’esistenza (è il caso della Palestina, secondo Solombrino). Seguendo queste tracce, le femministe future scelgono infine di complicare il senso, e di ispessire la descrizione con l’affabulazione. Non solo oggetto di analisi – le narrazioni di Le Guin, Butler, Atwood e anche di Haraway, che in Chthulucene dedica un capitolo a Camille, figli/e post-genere e interspecie delle Comunità del Compost di cui parla Marina Vitale –, l’affabulazione prende forma nei due saggi più «ibridi» che chiudono questa raccolta: quello di Stamatia Portanova dedicato alla fashion influencer digitale Lil Miquela, una sorta di racconto nel racconto in cui l’esperienza della narratrice offline e quella del personaggio online sfumano e si confondono, e l’allucinazione oracolare di Luciana Parisi, Suzanne Livingston e Ann Greenspan: le loro ragazze anfibie sono potenti e terribili (un po’ come quelle elettriche di Naomi Alderman), abitano la dimensione ctonia, viscerale, viscosa di una materia che pulsa, nutre e (si) rigenera, evocano la Sfinge, Lilith, Kali, somigliano alle figurazioni chimeriche e medusacee di Wangechi Mutu. Sono loro le femministe future, che brandiscono i tentacoli dell’agire e del pensare, antidoto finale, o forse veleno, alla verità assoluta e luccicante che tutti i testi di questo libro intorbidano.