Il diktat statunitense è costato almeno 500 vite e una città caduta. Ramadi, capoluogo della provincia di Anbar, dopo settimane di scontri tra esercito governativo e Stato Islamico, è stata completamente occupata dal califfo dopo l’imposizione di Washington, sostenuta dalle tribù locali sunnite: le milizie sciite irachene, gestite dall’Iran, sono state costrette a lasciare la prima linea del fronte per Ramadi.

Per giustificare l’arretramento delle forze che avevano permesso la liberazione di Tikrit solo poche settimane fa, gli Usa hanno usato la minaccia settaria: intervenire con milizie sciite in una provincia instabile come quella sunnita di Anbar avrebbe potuto far esplodere le divisioni interne al paese. Il timore, secondo i leader tribali, era di assistere alle stesse violenze seguite alla ripresa di altre comunità sunnite da parte sciita: saccheggi, uccisioni, rapimenti.

La realtà è ben altra: a Washington premeva ridurre l’influente presenza iraniana sul campo di battaglia iracheno, ampliatasi a dismisura con la ripresa di Tikrit e i sempre più stretti legami tra Teheran e Baghdad.

Per questo le organizzate milizie sciite sono state spedite in fondo. Davanti, ad affrontare lo Stato Islamico, è stato mandato l’esercito iracheno, accozzaglia di soldati male addestrati, frutto dell’epurazione imposta dall’invasione Usa. Dopo la caduta di Saddam Hussein, l’amministrazione Washington pensò bene di depurare le istituzioni irachene – compreso l’esercito – della componente sunnita e dei fedelissimi del rais. Il risultato, ogni giorno più visibile, è la totale impreparazione delle nuove truppe. Che si sono di nuovo date alla fuga, come successo a giugno a Mosul.

La caduta di Ramadi ha stravolto i piani di reconquista del governo iracheno che è subito corso ai ripari. Il premier al-Abadi ha ordinato il dispiegamento immediato delle milizie paramilitari Hashed al-Shaabi, o unità di mobilitazione popolarie, che sono già partite per Anbar. A richiedere l’intervento sciita – e quindi, indirettamente, iraniano – è stato lo stesso Consiglio Provinciale.
Immediata è stata la reazione sciita: alcune milizie si sono subito mobilitate, dichiarando di avere proprie unità già dispiegate nella provincia di Anbar, tra Fallujah e Habbaniyah. Le Ketaeb Hezbollah, potente gruppo paramilitare sciita iracheno, hanno fatto sapere di avere uomini pronti a raggiungere Ramadi da tre direzioni. E le Asaib Ahl al-Haq hanno dato i loro numeri: oltre 3mila combattenti pronti a intervenire.

Se Baghdad cambia strategia, chi non cambia idea sono gli Stati Uniti, burattinai del fallimento. Funzionari Usa continuano a mostrarsi ottimisti, definendo la caduta di Ramadi un fatto temporaneo: «Continuiamo a monitorare i rapporti su Ramadi – ha detto la portavoce del Pentagono, Maureen Schumann – La situazione resta fluida e contesa».

Paradossale: a poche ore dall’occupazione del quartier generale del governo da parte dei miliziani islamisti, gli Stati Uniti insistevano nel dichiarare i giochi ancora aperti. Da Seul, dove si trova in visita, il segretario di Stato Kerry ha commentato il disastro di Ramadi affermando che «un ampio numero di miliziani dell’Isis» sono stati uccisi e altri ne seguiranno: «Sono assolutamente certo che nei prossimi giorni la situazione si ribalterà».

Così non sarà, l’Isis terrà le posizioni: Ramadi è il capoluogo della più instabile provincia irachena, già all’epoca dell’invasione Usa. È la sede di una delle più importanti dighe del paese e di numerose basi militari. Avrebbe dovuto rappresentare il trampolino di lancio verso la riconquista di Mosul. La caduta di Ramadi e l’immediata offensiva lanciata dall’Isis ai villaggi vicini (come una macchia d’olio il califfato si sta già allargando fuori dal capoluogo) sono la riprova delle capacità di resilienza dello Stato Islamico alla debole strategia Usa: i raid, unico strumento della coalizione guidata dagli Stati uniti, non hanno indebolito la rete islamista. E i festeggiamenti per la morte del “ministro” del petrolio dell’Isis, Abu Sayyaf, ucciso sabato dalle unità speciali Usa, non possono che passare in secondo piano.

A pagare le spese della colpevole cecità statunitense sono i civili: se 8mila persone sono fuggite domenica (aggiungendosi ad altre 110mila fuggite nei mesi passati), chi è rimasto a Ramadi subisce in queste ore le barbare rappresaglie dello Stato Islamico: sarebbero già 500 i morti negli scontri, a cui si aggiunge un numero ancora imprecisato di esecuzioni.

Siria, offensiva Isis a Palmira bloccata da Damasco

Mentre Ramadi cadeva, continuava l’assedio islamista di Palmira, antica città siriana. A frenarlo sono state le truppe del governo siriano che sono riuscite ieri a bloccare la nuova offensiva jihadista contro uno dei più noti siti archeologici del paese. Dopo essere stata circondata venerdì scorso dagli uomini del califfo, Palmira era stata data prossima alla caduta. In pochi giorni i violentissimi scontri tra Damasco e Isis hanno provocato la morte di 60 civili, 132 soldati governativi e 115 miliziani. Ma per ora Palmira sembra essersi salvata.

A salvarla il nemico dell’Occidente, Assad. Che come l’Iran è ancora considerato parte del problema e non della soluzione. Ma con l’Isis che avanza, forse, il fronte anti-Isis dovrebbe rendersi conto che ad oggi le uniche forze in grado di frenare il califfo sono quelle sciite, da Teheran a Damasco.