Ufficialmente Tel Aviv non lo ammette, ma le parole del ministro dell’intelligence israeliano Katz sono ben più di una conferma: l’attacco all’alba di ieri contro la Siria è «del tutto coerente con la nostra politica per impedire il trasferimento di armi ad Hezbollah».

Ieri alle prime ore del mattino almeno cinque raid aerei hanno centrato la capitale Damasco e il suo aeroporto, provocando l’esplosione di un presunto magazzino di armi iraniane.

Subito Israele è finito nel mirino del governo siriano e dei media arabi, viste le precedenti e ripetute incursioni aeree sul cielo siriano, volte a colpire convogli o postazioni di Hezbollah e del governo.

Ma anche stavolta, come accaduto il 16 marzo, Damasco pare intenzionata a rispondere: ieri sera l’esercito israeliano ha detto di aver abbattuto «un oggetto non identificato» in volo sopra il Golan occupato nel 1967.

Secondo le autorità di Tel Aviv si sarebbe trattato di un drone siriano. Stanca delle provocazioni israeliane, un mese fa Damasco aveva già reagito ad un raid aereo lanciando a vuoto alcuni missili verso i jet israeliani. Uno era arrivato fino a Gerusalemme, dove era stato intercettato dal sistema di difesa Arrow.

Il governo di Netanyahu punta, nemmeno troppo occultamente, a mantenere alta la tensione, a destabilizzare un paese già in guerra per indebolirne gli sponsor, Hezbollah e Iran in primis.

E lo fa con modalità diverse, dai raid aerei agli aiuti (in parte confermati da rapporti Onu) a gruppi di opposizione, anche islamisti, al confine sud della Siria. La guerra che ha devastato il popolo siriano è stata la migliore occasione degli ultimi decenni per liberarsi dell’asse nemico, Hezbollah-Damasco-Teheran.

Un obiettivo che Israele condivide con altre potenze regionali, in primis l’Arabia Saudita con cui i rapporti si fanno – dietro le quinte – ogni giorno più stretti, soprattutto in termini di cooperazione militare in chiave anti-Teheran