Democratizzare le industrie, de-mercificare il lavoro, risanare l’ambiente. Sono le tre richieste contenute nella lettera appello democratizingwork, pubblicata il 16 maggio scorso sul manifesto e in simultanea su altre 40 testate internazionali, tradotta in 27 lingue, firmata da oltre 3.000 accademici e ricercatori di più di 650 università del mondo. Numeri che già da soli segnalano una convergenza straordinaria. L’intento di questo manifesto è quello di rovesciare l’ordine delle priorità della politica mondiale, partendo dalla lezione più importante impartita dalla crisi pandemica. «Le persone che hanno reso possibile continuare con la vita durante la pandemia di covid-19» – si legge in apertura del testo – sono «la prova vivente che il lavoro non può essere ridotto a una merce».

Abbiamo parlato dei contenuti di questo manifesto con la filosofa Rahel Jaeggi, docente della Humboldt di Berlino, voce tra le più autorevoli della nuova teoria critica tedesca, da anni impegnata nell’elaborazione di una critica delle forme di vita capitalistiche, tra le prime firmatarie di democratizingwork.

Qual è la novità e l’importanza di questo manifesto sul lavoro?
La crisi del coronavirus ha reso evidenti, come una lente di focalizzazione, tutti i problemi del nostro mondo del lavoro contemporaneo e della nostra concezione del lavoro. Questi problemi non sono nuovi. Ma il manifesto utilizza questo momento di crisi, in cui è pressante l’esigenza di una nuova valorizzazione del lavoro, come una finestra di possibilità.

Mi sembra importante innanzitutto il richiamo al fatto che non è in gioco soltanto una questione di retribuzione. I lavoratori non sono «mere risorse»: è una richiesta che viene rivolta affinché venga riconsiderato il valore che il lavoro ha per gli individui e in quanto fattore che produce e può produrre connessione sociale.

Nel suo testo «Nuovi lavori, nuove alienazioni» (Castelvecchi 2020) ha sostenuto che le patologie sociali del lavoro contemporaneo possono essere interpretate come diverse forme di impedimento o di negazione della partecipazione alle risorse generali di una società. Cosa intende?
«Risorse generali di una società» è un concetto che ho ripreso da Hegel. Con esso intendo: ciò che una società ha e di cui è capace. Gioco qui con il duplice significato del termine: per un verso risorsa indica un possesso, per altro verso un potere. Si tratta quindi delle risorse che una società ha a disposizione: la ricchezza sociale che consiste anche nelle abilità e nelle capacità tecniche, nel modo in cui è organizzata la cooperazione basata sulla divisione del lavoro.
Nelle nostre moderne società del lavoro, il lavoro è «un prender parte» in molteplici modi a questo possesso di risorse generali.

Nell’autocomprensione delle nostre società con il lavoro si acquisisce innanzitutto il diritto al proprio sostentamento; si ottiene anche riconoscimento sociale nella misura in cui si dà un contributo alla cooperazione sociale. Ma in terzo luogo, con il lavoro si acquisisce anche la possibilità di poter prendere parte alle abilità, al sapere, alla «cultura» che costituiscono una società, così come al modo in cui essa si riproduce in un determinato momento. Ora è decisivo il fatto che il motivo della «partecipazione alle risorse universali» permette di mettere a fuoco unitariamente diverse patologie del lavoro: ossia rapporti sociali di lavoro che non corrispondono a ciò che il lavoro è e può essere.

Se il lavoro è «alienante», privo di significato, non libero, vuol dire che è distrutta la partecipazione ad esso. Allo stesso modo disoccupazione, precarietà e sfruttamento sono ovviamente forme di rifiuto di questa partecipazione. Una concezione di questo tipo, quindi, può aiutare a comprendere che un lavoro adeguato è tale non solo in quanto è ben remunerato. Impedisce anche che si possano giocare una contro l’altra le diverse patologie, per esempio quando si afferma: prima abbiamo bisogno di un qualche lavoro, poi possiamo pensare ad un «buon» lavoro.

Alla luce di questa diagnosi, possiamo comprendere la prima richiesta del manifesto: «democratizzare il lavoro». Cosa significa?
La democratizzazione del lavoro in senso ampio significa che chi lavora deve prender parte alle decisioni su che cosa e su come si lavora. Chi lavora contribuisce a dare forma al processo lavorativo, ma è anche coinvolto nelle decisioni fondamentali che imprimono un senso e una direzione a questo stesso processo. Simili forme di partecipazione, che sono anche forme di autodeterminazione collettiva, possono assumere i caratteri più disparati.
La cosa decisiva, mi sembra, è organizzarle in modo tale da renderle realmente esperibili per i lavoratori. Naturalmente c’è bisogno di istituzioni e di forme di delega. Ma se la democrazia deve divenire una forma di vita, allora il margine di manovra democratico deve essere avvertito da chi è coinvolto nei processi.

La seconda richiesta del manifesto è: «de-mercificare il lavoro». Questo è un tema che viene ampiamente discusso nel libro che ha scritto insieme a Nancy Fraser: «Capitalismo» (Meltemi 2019).
Questa mi sembra in realtà la richiesta centrale. Non sarebbe del tutto errato intendere la storia delle lotte di classe come una storia della lotta attorno alla mercificazione e alla de-mercificazione del lavoro. Nel capitalismo il lavoro assume la forma di una merce: i lavoratori scambiano la loro forza lavoro in un mercato di lavoro e sono con ciò, secondo la nota formula di Marx, «doppiamente liberi»: liberi di stipulare il contratto di lavoro oppure di morire di fame.
Per altro verso il lavoro non è mai una mera merce. Su questo hanno sempre insistito tutti i teorici interessati ai limiti del mercato, come per esempio Karl Polanyi.

Per chi lavora il lavoro non può essere abbandonato alle causalità del mercato, in quanto mezzo di sostentamento e rapporto di riconoscimento. Ma non può essere ridotto a merce anche in quanto partecipazione alle capacità e alle abilità di una società: esso è una prassi sociale che riposa su un’identificazione, legata in modo potenzialmente indissociabile ai soggetti. Il lavoro coinvolge, quindi, potenziali diversi e più ampi di quelli che sono richiesti dal suo essere merce. Detto diversamente: questi potenziali sono già da sempre consumati e presupposti, ma non possono essere generati in alcun modo attraverso il mercato.

Per capire di cosa sto parlando, basti osservare per esempio quanto si lavora nei lavori di cura: che tipo d’impegno ci mette chi ci lavora, nelle condizioni più improbabili, in condizioni che in realtà bloccano e minano strutturalmente questo stesso impegno. Bisogna quindi rendere sicuro il lavoro con garanzie giuridiche, dotarlo di potere contrattuale, inscriverlo in una rete complessiva di misura di protezione sociale dell’esistenza. Tutto questo è direttamente connesso alla richiesta di democratizzazione, perché decidere democraticamente nei luoghi di lavoro è un principio diametralmente opposto alla mercificazione.

La terza richiesta del manifesto è: sostenibilità. Anche in questo caso, si tratta di un cambio di paradigma.

Mi sembra importante pensare insieme questi due temi e quindi il tema più generale della riproduzione sociale: il denominatore comune è la misura in cui il capitalismo e la sua dinamica di crescita vivono di presupposti che esso stesso non può riprodurre.

Nel suo libro «Critica delle forme di vita», plaude per una teoria critica della società che muove dalle crisi e dalle contraddizioni che abitano le forme di vita. Quali sono le chance che questa crisi possa aprire processi di apprendimento collettivi?
Chi lo può dire? Una crisi di questa portata può prendere molte direzioni. Può condurre a trasformazioni, buone o cattive, ma anche ricondurci allo status quo precedente. Al momento non credo si possa prevedere. D’altra parte, è vero, io sono dell’opinione che i processi di apprendimento collettivi sono sempre messi in moto, in primo luogo, da questi momenti di crisi: da slittamenti nella struttura delle istituzioni e delle pratiche esistenti. Assistiamo ora ad una grande incertezza. Notiamo come

i modelli vigenti di organizzazione sociale ed economica, probabilmente, non sono sufficienti ad affrontare la crisi. Concezioni acquisite – come l’ideologia del mercato in generale – sembrano ormai giunte al capolinea. Si apre quindi forse una speranza.