Dopo la battaglia di Lipsia e a seguito del trattato di Fontainbleau – 14 aprile 1814 –, Napoleone è costretto ad abdicare all’imperial trono di Francia e accettare ben altro impero: l’isola d’Elba dove avrebbe «regnato» dal 3 maggio 1814 al 9 giugno 1815. Mentre il còrso passava i suoi giorni a domicilio coatto, i potentati europei si riunirono dal 1° novembre 1814 a Vienna, per ristabilire, dopo gli sconvolgimenti creati della rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche, l’ancien régime e aprire così l’età della Restaurazione. Dopo i napoleonici cento giorni e l’estrema disfatta di Waterloo, mentre l’ex imperatore navigava ormai verso Sant’Elena, tra intrichi, intese riservate, feste, ricevimenti danzanti, la diffusione di informazioni sussurrate nelle alcove e nei salotti di dame, compagne o accompagnatrici di rappresentanti ufficiali di vari paesi, il Congresso viennese procedeva in spartizioni, spostamenti di confini, appropriazioni di territori e abolizione delle storiche antiche repubbliche: le medesime che la Francia napoleonica aveva voracemente incorporate.

A ridisegnare i confini della nuova Europa, trafficando, dominava il camaleontico Talleyrand, sostenitore di ogni partito vincente, soprattutto del proprio. Ed era sempre lui ad aver partecipato alla scelta della capitale austriaca come sede di un grande Congresso. Scartata la candidatura di Berlino, Vienna era apparsa come la più equidistante, semmai centro geografico e politico dell’Europa. Parigi era stata esclusa perché la Francia si riteneva la più danneggiata tra le nazioni dalla follia napoleonica. «Poi – sembra avesse detto diplomaticamente Metternich – a Parigi ci sono soltanto venti bagni pubblici».

Già filo-napoleonico, passata l’onda ministro degli esteri di Luigi XVIII, l’uomo per tutte le stagioni Talleyrand brigava attivissimo nel gran consesso viennese accogliendo ghignante da de Ligne «polizzini» con sarcastici commenti: «…Questo è un congresso di guerra non certo di pace… dove in framezzo a chiacchiere sotterranee si folleggia e si danza in intrattenimenti festaioli». Biglietti che giravano in gara con chiacchiere e maneggi politici di nuvole di teste coronate, compreso lo zar: tutti «sangue bleu» pronti ad accorrere al concerto diretto da Beethoven in persona, della nuova Settima sinfonia, eseguita in onore dei convenuti alla grande assise storico-politica.

Con l’andare dei giorni, in attesa che le grandi potenze vincitrici si accordassero, il Convegno funzionava con una specie di spionaggio istituzionale, un sistema di controllo postale: ogni plico, imperiale, ministeriale o diplomatico, in partenza o in arrivo da/a Vienna veniva aperto con il vapore, i testi ricopiati, si studiava se i messaggi fossero stati scritti in chiaro o in cifra. Si aveva l’impressione che al Congresso con un controllo serrato tutti sapessero tutto di tutti.

All’assise dei vincitori si erano intanto presentati – con l’illusione fosse restituita loro la secolare indipendenza – i delegati delle repubbliche «storiche» che erano passate forzosamente sotto il mantello della Francia napoleonica. Le repubbliche storiche minori – Lucca, Genova, Ragusa… – da parte dei vari stati erano tuttavia considerate pedine da scambiare sulla scacchiera del Congresso e sacrifricate sull’altare dell’equilibrio tra le grandi potenze, golose di allungare le mani su territori fin ad allora dominati dal potere imperiale.

Il marchese Brignole Sale, delegato della genovese repubblica di San Giorgio della quale erano ben conosciute al Congresso le ambizioni di recuperare l’antica libertà e indipendenza, come altresì note erano le pretese del Piemonte di annettersi la Liguria, a notte inoltrata fu convocato dal principe Metternich che gli comunicò: la decisione relativa alle richieste del Piemonte sulla Liguria era stata presa, e i messaggeri erano già partiti con i dispacci. La Liguria entrava a far parte del savoiardo Regno di Sardegna.

Questo è solo uno degli episodi raccontati da Cristiano Caracci nel curioso e «romanticamente» vivace Ottocento (Gaspari editore, pp. 133, € 17,50), che ricostruisce le vicissitudini dei delegati delle repubbliche, in particolare di Ragusa, recatisi al Congresso di Vienna per salvare e riguadagnare la propria storica autonomia.
Dopo sei secoli di prospera indipendenza l’adriatica repubblica di Ragusa il 31 gennaio 1808, con decreto del generale Marmont era stata soppressa passando sotto il mantello imperiale della Francia. Il 20 gennaio 1814, alla caduta del còrso, il generale austriaco Theodor Milutinovic von Milovshy entrava a Ragusa incorporando l’antica repubblica nell’Austria, imponendo ai ragusei di ammainare la storica bandiera, decretando, con l’occupazione militare, la fine di secoli di indipendenza. In quei giorni si stava profilando in Europa, dopo il dilagante potere napoleonico, la necessità di un riordino degli stati europei, sancito con un congresso restauratore da tenersi a Vienna. Insomma una grande torta da spartire tra i vincitori. I ragusei vissero quei giorni con il rimpianto della loro repubblica perduta, il dolore per un mondo rivisitato nella mente con le atmosfere di un paesaggio adriatico, florido. Il ricordo di annose foreste, il rimpianto per le perdute nobiliari magioni e soprattutto il deprezzamento di un porto ove avevano avuto luogo grandi commerci, traffici che dall’Adriatico si aprivano verso ampie acquoree rotte.

Nel 1815 Ragusa fu integrata dal Congresso di Vienna al Regno di Dalmazia. Nel 1919, dopo gli eventi connessi alla prima guerra mondiale, Ragusa passò al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, poi diventato Regno di Jugoslavia. In seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, e alla successiva guerra d’indipendenza croata, Ragusa entrò a far parte del nuovo Stato indipendente della Croazia.