A due secoli dalla nascita di Marx uno dei temi del suo pensiero che suscitano ancora interesse e discussione è quello del «feticismo delle merci»: parte da qui il volume di Romano Màdera, Sconfitta e utopia Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche (Mimesis, pp. 238, euro 20,00) che ripropone, arricchito con diversi nuovi materiali, il testo pubblicato nel 1977 col titolo Identità e feticismo, importante nella discussione di quell’epoca.
Tornando oggi su questi temi, Màdera traccia un bilancio delle geniali intuizioni marxiane che si lascia compendiare in questa secca frase: «una perfetta diagnosi, una mediocre prognosi, una terapia inconsistente».

Ora, la diagnosi marxiana centrata sul tema del feticismo appare a Màdera come la parte migliore, e non caduca, della eredità del pensatore di Treviri. Anzi, si direbbe che sia proprio il Marx del feticismo quello più compiutamente inverato nell’epoca del capitalismo globale: una «forma di civiltà» – secondo Màdera – dove tutto ruota intorno all’accumulazione economica, «nel senso che a immagine di questa si strutturano i rapporti di potere, le relazioni tra le persone, la psicologia collettiva, i valori, gli ideali, i simboli (compresa la nuova religione secolarizzata del denaro da moltiplicare, autentica divinità del nostro tempo)».
Come osserva David Harvey in un bel volume appena pubblicato da Feltrinelli, Marx e la follia del capitale (Feltrinelli, pp. 240,euro  22,00) il punto decisivo messo a fuoco dal filosofo di Treviri è la visualizzazione del capitale come valore in movimento; un processo che tocca il suo apice nel capitale produttivo di interesse, dove il feticismo raggiunge il suo culmine in quanto al capitale sembra appartenere il misterioso potere di autovalorizzarsi.

Verso un’altra strategia
Certamente, il fine di tutta la ricerca di Marx era proprio quello di dissipare questa apparenza feticistica, mostrando come la fonte occulta della valorizzazione del capitale non potesse essere altro se non lo sfruttamento del lavoro. Ma ancora oggi, a un secolo e mezzo dalla pubblicazione del Capitale, il feticismo, inveratosi nel consumismo e nella società dello spettacolo, costituisce una sorta di orizzonte onnicomprensivo del nostro mondo vitale, più pervasivo di quanto Marx non avesse potuto prevedere.

«Entro le coordinate del capitalismo globale – scrive infatti Màdera – la tendenza a consumare si accoppia con quella a spettacolarizzare ogni aspetto della vita (come aveva cominciato a teorizzarla Debord), sia perché attraverso lo spettacolo la tendenza al consumo colonizza un’altra rilevante parte della vita, mettendo al lavoro il tempo di non-lavoro, sia perché lo spettacolo (…) tende a sganciare il valore di scambio da un uso qualsiasi, ampliando la scala dello scambio a ogni virtualità immaginabile e, parallelamente, vendendo il necessario non per le sua qualità intrinseche, ma per l’aura che la sua presentazione riesce a evocare». Insomma, da un lato si afferma senza residui il primato del valore di scambio sul valore d’uso, dall’altro la sostanza di questo valore di scambio svapora anch’essa lasciando sussistere solo la sua natura immaginaria e spettacolare.

La lezione di Jung
Ma se Marx si è inverato così bene, dove sta il problema? Paradossalmente, sta nel fatto che aveva troppo ragione: se le dinamiche feticistiche sono ancora più pervasive di quanto a Marx non fossero apparse, allora la conclusione che Màdera trae è che dal filosofo di Treviri non si ricava tanto una teoria del necessario rovesciamento del capitalismo, quanto una visione della sua insuperabilità. O meglio, della sua insuperabilità finché si resta sul terreno di una contestazione economico-politica degli assetti vigenti.
La strada del cambiamento passerà, allora, da un’altra parte: da una rivoluzione che deve investire innanzitutto il rapporto con se stessi e con gli altri. Il contributo della psicoanalisi junghiana si combina – nel testo di Màdera – con quello della ricerca spirituale intesa nel senso più ampio, aperta a ciò che si può imparare dalle grandi religioni, dalla spiritualità buddhista, dalla pratica classica degli esercizi spirituali. E così, per il filosofo-psicanalista, l’auto-trasformazione di noi stessi diventa «la continuazione della politica con altri mezzi».