«Se c’è una cosa bella in questa storia è che normalmente il ricovero comporta di fermarsi mentre il mondo fuori continua a girare. Adesso invece è come se quel mondo li stesse aspettando». A parlare è Riccardo Esposito, tirocinante psicologo. Ogni giorno si occupa dei giovani pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione.

Siamo nel centro per la cura dei disturbi dell’alimentazione di Todi. Un posto in cui ogni giorno venti tra ragazze e ragazzi provano a guarire dall’anoressia o dalla bulimia nervosa. Il primo paradosso della quarantena volontaria, per loro, è che ne stavano già vivendo una. Ilenia si è ammalata di bulimia nervosa a 12 anni. Ha gli occhi grandi, verdi, in tono con la camicia che indossa: «Sì, ho deciso io di venire qui. A 14 anni ti sembra di avere il mondo in mano, ma a 21 è brutto non avere prospettive per il futuro. La malattia ti toglie tutto». Giordana ha la sua stessa età e soffre di anoressia nervosa: «Sto dentro questa malattia dal 2017, dopo tre anni mi sono convinta a venire qui. All’inizio non volevo accettare di stare male, pensavo fossero gli altri a essere folli».

ANCHE LORO si sono dovuti adeguare alle norme previste dal governo da quando è esplosa la pandemia. «Il primo obiettivo è quello di ripristinare il quadro clinico attraverso la terapia nutrizionale», spiega la dottoressa Elisa Reginato, nutrizionista del centro.

Deve prendersi cura di pazienti, seppur giovanissime, maggiormente esposte alle complicazioni del Coronavirus, perché immunodepresse. Ma non tutte riescono ad accedere alle cure in struttura, specialmente in questo periodo. «Dal 24 febbraio i nuovi ricoveri sono stati sospesi e verranno ripresi dopo il 20 aprile previo tampone preventivo», dice la dottoressa Laura Dalla Ragione, psichiatra e responsabile del centro. In compenso, il telefono ha squillato più di prima. «Gestendo il numero verde nazionale riceviamo molte telefonate, soprattutto dalle regioni più colpite», aggiunge. «Chiamano mamme disperate che cercano di gestire le crisi delle figlie e chiedono a noi di parlarci», spiega Esposito. «Ci sono infatti ragazze che solo adesso si sono scoperte ossessionate dal cibo; e altre, terrorizzate, perché hanno notato il ritorno del sintomo», precisa.

«NON RIUSCIVO a gestire il mondo esterno», racconta Ilenia, «quindi volevo riuscire a farlo almeno con le mie emozioni, riversandole poi sull’aspetto fisico». «Fuori di qui, è in qualche misura normale che ci sia un ritorno al disturbo, perché crea l’illusione di controllo sull’ambiente», spiega il dottor Esposito. «Quando l’ha scoperto, mia madre cercava di non farmi abbuffare. Nella mia testa le dicevo: “Chi ti credi di essere?”». Aggiunge Ilenia, che da quando è arrivata qui ha imparato a fare i conti con la rabbia. «Non sentivo di avere un punto di riferimento, perché i miei genitori sono separati. La malattia poi ha distrutto il rapporto con mia madre. Mentre mio padre quand’ero piccola lavorava sempre, non c’era mai, poi si è ammalato e adesso è in ospedale», racconta invece Giordana.

SECONDO LE STATISTICHE cliniche, i disturbi alimentari nascono nella maggior parte dei casi da cause familiari o sociali, il non sentirsi all’altezza e il dover dimostrare di esserlo. «Mi sono sempre preoccupata di quello che potessero pensare gli altri, gli altri, sempre gli altri», Ilenia ripete queste parole, come se le martellassero il cervello. E continua: «Passavo le mie giornate ad abbuffarmi e a vomitare, perché poi nemmeno te lo ricordi perché hai iniziato».

IL CENTRO RESIDENZIALE è nato nel 2003. Nel 2012 è stata inaugurato Il Nido della Rondine, «una struttura semi residenziale, intermedia, perché il passaggio dal centro a casa era un po’ troppo brusco», dice la dottoressa Dalla Ragione. Qui, ogni anno, «passano circa 120 persone, alle quali si aggiungono le pazienti del percorso ambulatoriale, circa 200 che adesso vengono monitorate a distanza, mentre le altre proseguono le attività in residenza». Ma è solo la minima parte di un problema che sta crescendo.

L’ultimo rapporto pubblicato dal ministero della Salute risale al 2013, ma è in corso una nuova raccolta dati che verrà pubblicata alla fine di quest’anno. La dottoressa Dalla Ragione fa parte del gruppo di ricerca che si sta occupando della fase di sorveglianza e anticipa che il dato più preoccupante è che nel 2019 ci sono stati 3200 morti per anoressia. Inoltre, si è di molto abbassata l’età in cui ci si ammala (8-9 anni) e i maschi rappresentano il 20% del totale (nel 1018 erano il 4,1%). Fino a cinque anni fa, l’età media si aggirava intorno ai 25 anni. Adesso, nel centro, entrano quasi ogni settimana bambine di 10/11 anni. «Non accetto che mi si dica che è morta una persona per anoressia, perché l’anoressia è una malattia: si cura e si guarisce», afferma la responsabile.

Dopo Todi, in Italia, sono state aperte altre 27 strutture, ma «ne servono di più», conclude la dottoressa Dalla Ragione, «perché siamo davanti a un’epidemia sociale senza precedenti».