In un’intervista rilasciata all’uscita del suo quarto romanzo, Zadie Smith respingeva con forza l’immagine di paladina del multiculturalismo che le è stata cucita addosso sin dalla pubblicazione di Denti bianchi nel 2000: per quel debutto letterario la scrittrice, allora venticinquenne, ricevette dall’editore Penguin un anticipo milionario. A dispetto del moralismo esercitato a posteriori su questo lancio editoriale, l’investimento su una giovane e talentuosa scrittrice di origini miste (padre inglese, madre giamaicana) non aveva nulla di stupefacente. La Gran Bretagna cominciava a raccogliere i frutti di anni di lotte per il pubblico riconoscimento delle disuguaglianze razziali su cui si era andata strutturando la società post-imperiale, e l’affresco di una novella swinging London, accogliente e rivitalizzata dalle differenze etniche, offerto da White Teeth, appariva in perfetta – quantunque strategica – sincronia con lo spirito del tempo. Un decennio dopo, in NW (2013), l’effervescenza del melting pot londinese cedeva il passo a scenari urbani assai più foschi.
Il nuovo romanzo di Zadie Smith, Swing Time (Mondadori, traduzione di Silvia Pareschi, pp. 417, € 22,00), riparte dai quartieri popolari di Londra e dalla linea del colore, per tratteggiare una variegata commedia umana che abbraccia l’Africa, l’America e l’Australia e si declina sull’antitesi, tanto esistenziale quanto narrativa, di leggerezza e gravitas.

Il titolo allude al musical diretto da George Stevens nel 1936 (Follie d’inverno nella versione italiana), in cui Fred Astaire balla il tip tap insieme a tre figure in controluce che «non riescono a tenergli dietro, cominciano a perdere il ritmo e alla fine gettano la spugna», e che solo in un secondo momento si rivelano essere le sue ombre. Intorno ai giochi di luce edi buio, sostanza e apparenza, messi in scena da questa sequenza cult, ruota la vicenda di una narratrice anonima che è ammaliata dalla vertiginosa leggerezza delle ombre danzanti: «Stavo perdendo il senso della mia posizione nello spazio, mi innalzavo sopra il mio corpo e vedevo la mia vita dall’altro, da molto lontano. Mi si stava rivelando una verità: avevo sempre cercato di aggregarmi alla luce degli altri, non avevo mai avuto una luce mia».

Dopo quello che James Wood definì il «realismo isterico» di White Teeth e la polifonia virtuosistica di NW, ora Zadie Smith sperimenta la narrazione in prima persona, si direbbe, con ambizioni whitmaniane: distillare la musica, i colori e i ritmi del mondo in un avvolgente e corale song of myself. Senonché, al posto di un io pletorico che si dilata nel tempo e nello spazio inglobando progressivamente persone e luoghi diversi e distanti, Swing Time mette in campo una voce narrante che si defila dalla ribalta, si contrae fino allo spasimo, e si lascia consumare dal mondo al punto da non attribuirsi neppure un nome.
In prima battuta, Swing Time racconta la storia di un’amicizia adolescenziale competitiva e insieme profondamente solidale. Tracey e la narratrice abitano nelle stesse case popolari e hanno entrambe un genitore bianco e uno nero. Si incontrano alla prima lezione di un corso di danza a buon mercato organizzato dalla parrocchia e diventano inseparabili. Ad accomunarle è la stessa sfumatura di bruno della pelle, «come se fossimo state ritagliate da una sola pezza di stoffa marrone», lentiggini che «si addensano negli stessi punti» e una passione sfrenata per il ballo.

A separarle sono due madri ugualmente escluse dal sussidio di disoccupazione, ma antitetiche per stili di vita e di pensiero. Volgare, sgomitante e sfigurata dall’acne la madre inglese di Tracey; determinata, ideologica e dotata di un «istinto formidabile per le usanze della classe media», la madre giamaicana della narratrice, la cui rassomiglianza con Nefertiti le consente uno stile dimesso e privo di ornamenti che è la rappresentazione allegorica delle sue scarse finanze e delle idee radicali. Prevedibilmente, le due ragazze seguiranno percorsi diversi e parimenti accidentati, a volte riavvicinandosi ma senza mai superare il sottile antagonismo che porta alimento al loro legame.

Le pagine dedicate al rapporto di odio-amore tra la narratrice – insicura, politicamente apatica e asservita ai capricci della pop star australiana cui fa da assistente negli anni successivi alla laurea – e la madre – volitiva e capace di anteporre alla famiglia la conquista di un’istruzione e di un ruolo pubblico – sono tra le più riuscite del romanzo. Filtrata dallo sguardo feroce dell’adolescenza, l’inarrestabile scalata sociale della donna dà corpo alla convinzione più radicata dell’autrice: ovvero, che la razza è solo una variante della classe. Lo stesso principio si incarna nel personaggio di Hawa, la giovane maestra del Gambia (il paese dell’Africa occidentale nel quale si svolge parte della storia) che è «nota dovunque come portatrice di leggerezza» perché la sua appartenenza alla classe media ne fa «una relativa rarità nel villaggio».

Tuttavia, l’universo del romanzo non si lascia chiudere in categorie astratte né si sviluppa nelle profondità della coscienza individuale. La scrittura di Smith dà il meglio quando lavora sulla complessità delle superfici, disponendo persone, luoghi e oggetti lungo assi orizzontali di cui, panotticamente, lascia intravedere giunture e fessure. Proprio come nelle volute disegnate dai corpi di Ginger e Fred «si può sempre vedere la lezione di danza e, in certo senso, la lezione di danza è il balletto».

Con Swing Time Zadie Smith regala ai lettori una memorabile opera-mondo che affronta la musica, il cinema, la moda, le adozioni, la schiavitù, l’ambiente, la filantropia, in un impasto di amarezza e brio, confusione e nettezza, che espunge da ogni frase l’alibi della compassione. Chi narra, ostentatamente, si mette in piazza non per amore ma per vendetta. Chi legge non dubita per un attimo della verità del racconto.