Raffaello, “Cavallo dell’Opus Praxitelis” (dal gruppo dei Dioscuri al Quirinale a Roma), 1514-’15 circa, Washington DC, National Gallery of Art

 

La prima e più umana reazione che provocò la morte di Raffaello Sanzio il 6 aprile 1520 fu lo sbigottimento. Non si riusciva a credere che il pittore fosse scomparso. «Io son sano», scriveva Baldassarre Castiglione alla madre il 20 luglio, «ma non mi pare essere a Roma, perché non vi è più, el mio poveretto Raphaello». Amici da tempo, come testimoniano sia il ritratto del letterato – eseguito dal Sanzio verso la fine del 1513 e oggi al Louvre – che la famosissima ‘lettera’ redatta a quattro mani, i due condividevano anche il profondo interesse per le cose antiche, per tutto ciò che dal passato della Roma classica era arrivato sino a loro. Non a caso, nel 1516 c’erano anche Castiglione e Raffaello insieme ad Agostino Beazzano, Pietro Bembo e Andrea Navagero in un’escursione a Tivoli, per visitare i resti della villa dell’imperatore Adriano.
Erano, quelli, gli anni della maturità dell’urbinate, quando il suo modo di guardare e ingaggiare confronti serratissimi con l’antichità classica era cresciuto in modo sempre più forte e più consapevole. Non s’era trattato di un amore passeggero. Quello di Raffaello nei confronti dell’Antico era un sentimento che aveva radici profonde, un legame attraverso cui il Sanzio aveva fatto proprie le invenzioni e i linguaggi antichi al punto da essere in grado di ricrearli, di dargli nuova vita proprio lì, nella sua Roma dell’inizio del XVI secolo. E infatti proprio la sua capacità di ridar vita all’Antico, all’antica Roma, era una delle cifre peculiari della sua arte, che tutti gli riconoscevano senza riserve.
La grande mostra delle Scuderie del Quirinale per i cinquecento anni dalla morte del pittore, purtroppo funestata dalla pandemia, aveva posto le basi per (ri)avviare qualche riflessione su questo tema così importante. In quell’occasione la sezione dedicata alla modernità dell’antico di Raffaello era stata affidata a Vincenzo Farinella, che aveva fatto il punto su alcuni aspetti e problemi. Lo stesso autore ha adesso affrontato di petto l’argomento dandogli la forma di un bel libro monografico edito da Carocci: Raffaello pittore archeologo Eguagliare e superare gli antichi (pp. 266, € 31.00).
Nel mare mai calmo delle pubblicazioni dedicate al Sanzio, questo volume offre un punto d’approdo per indagini cui mancava una sintesi, consegnate com’erano a contributi specialistici. In sostanza, era dal saggio che Giovanni Becatti aveva pubblicato nel secondo volume del monumentale Raffaello uscito per De Agostini, anno 1968, che si aspettava di tornare a ragionare su questi temi in modo ampio e articolato. Uno dei sicuri punti di forza del libro di Farinella risiede nell’ampio taglio cronologico prescelto. Se è chiaro, infatti, che la più sfogata e compiuta appropriazione dei modelli classici fiorisce e si compie nell’ultimo tratto dell’esperienza di Raffaello, è pur vero però che sin dalla gioventù l’artista si era dimostrato attento e ricettivo nei confronti dell’arte antica. Così gli anni giovanili del pittore, quando ad esempio lavorava fianco a fianco a Pinturicchio per la decorazione della Libreria Piccolomini del Duomo di Siena, sono riletti con sguardo attento a individuare le tracce lasciate da Raffaello, indagando il cosiddetto Libretto veneziano, un taccuino (oggi conservato a Venezia, Gallerie dell’Accademia) dove un allievo di Raffaello ha messo in bella copia i disegni del maestro. La cronologia alta di quei fogli indica che il Sanzio, già a date precoci, prestava una speciale attenzione alle opere antiche. La sua fu una competenza che Farinella non esita a definire ‘archeologica’, tale era l’attenzione ai significati e alle funzioni delle opere.
Col trasferimento a Firenze, nel tardo 1504, per Raffaello si compì la rivelazione della «maniera moderna». Le imprese di Michelangelo e Leonardo al lavoro per i grandiosi dipinti murali in Palazzo Vecchio dovettero certo esercitare una grande presa su di lui. Ma gli occhi curiosissimi del giovane pittore, mai sazi di esperienze e sempre pronti a far propri i diversi stimoli, si posarono anche sull’arte del secolo precedente (Masaccio, Donatello, Luca Della Robbia) e sulle varie opere antiche che allora si trovavano in città. Uno degli elementi che emergono dalle pagine di Farinella è proprio l’insaziabilità dello sguardo di Raffaello, la sua capacità di porre sullo stesso piano l’Antico e il Moderno, di farli convivere prima nelle pagine dei propri taccuini e fogli di studio, e poi nelle proprie opere. Nascevano così capolavori come il Trasporto di Cristo al sepolcro della Pala Baglioni (1507), un dipinto che assomma e vivifica tanto i riferimenti a Michelangelo quanto quelli all’antica raffigurazione della morte di Meleagro, puntualmente analizzati nelle pagine che Farinella dedica al dipinto della Galleria Borghese.
Su queste premesse si compì la scoperta di Roma, che per Raffaello dovette costituire un’esperienza fibrillante. E così nelle sue opere iniziano a risuonare sempre di più i rimandi, gli echi dell’Antico, sino a giungere, nel 1516 circa, alla più completa e compiuta riproposizione della pittura antica, in quell’appartamento che il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena occupava in Vaticano. La Stufetta e la Loggetta, infatti, costituiscono uno snodo capitale tanto nel percorso di Raffaello quanto, più in generale, nella Storia dell’arte. Riproporre il sistema decorativo antico, le grottesche, in quegli ambienti non era una semplice operazione di citazionismo per conferire un’allure all’antica a quegli spazi.
Particolarmente acuto è il capitolo in cui è riesaminata l’attività di Giovanni da Udine al fianco di Raffaello nell’impresa di far rivivere le grottesche. Attraverso una fine lettura in contropelo delle pagine di Vasari, Farinella ribadisce l’assoluta centralità delle invenzioni di Raffaello, nel segno di quella prassi che era propria dei grandi cantieri diretti dall’Urbinate, ridimensionando l’effettivo ruolo dell’udinese. Per Raffaello erano anni fecondi e densi di impegni, con le commissioni che si accavallavano e la necessità di gestire una bottega in modo che le opere non risentissero di virate qualitative troppo nette. Come aveva ben intuito John Shearman, della cui lezione l’autore fa tesoro in molti punti del volume, Raffaello esercitava un controllo strettissimo sulle invenzioni delle opere (fossero esse dipinti o grandi cicli decorativi), quelle dovevano essere a tutti i costi sue, senza deroghe.
I disegni autografi preparatori per l’ultima delle Stanze vaticane, la Sala di Costantino, stanno a testimoniare proprio quest’ossessiva necessità di controllo. Ma indicano anche lo zenit delle ricerche antiquarie di Raffaello, una summa di tutti i motivi tratti dalle scene di battaglia studiati sulla Colonna Traiana, sui sarcofagi, sull’Arco di Costantino.
Tornare allora ad attraversare la carriera del Sanzio a partire dai suoi interessi archeologici aiuta a cogliere diversi aspetti della sua prassi artistica. Se certo è facile affermare che l’antichità funzionò da modello privilegiato, altra cosa è spiegare come questi meccanismi furono attuati da Raffaello, in che modo, da assoluto genio quale era, li seppe via via innescare nel migliore dei modi, attraverso una conoscenza raffinata e precisa, capace di fare il paio con la riflessione sulle opere del rivale Michelangelo. Questo di Farinella, dunque, è un libro che sicuramente aiuterà ulteriori indagini sull’opera di Raffaello, per imparare a conoscere sempre più a fondo i meccanismi creativi del Divino.