Eredi di tradizioni plurimillenarie, le indagini di linguisti, semiotici e filosofi del linguaggio hanno raggiunto nel XX secolo una vitalità senza pari. Di qui il moltiplicarsi di scuole e programmi di ricerca che, se per un verso hanno chiarito alcuni aspetti dell’attività di linguaggio, hanno tuttavia anche introdotto tecnicismi spesso responsabili di gravi opacità concettuali. Di questa duplice consapevolezza tiene conto l’ultimo libro di Raffaele Simone, Il software del linguaggio (Raffaello Cortina, pp. 298, € 26,00), che al rigoroso impegno dell’autore nel campo della linguistica accompagna l’espressione di un cauto ma fermo pessimismo circa la diffusione di una terminologia specialistica, unita alla condanna di quella consuetudine al litigio che ha ostacolato la messa in comune di acquisizioni preziose nella spiegazione dei fatti di linguaggio.

Tuttavia, è la natura stessa dell’oggetto esaminato ad aver opposto un freno allo sviluppo di ricerche efficaci: per via dei diversi aspetti di cui il linguaggio si compone, i linguisti hanno avuto l’impressione di misurarsi con un oggetto elusivo e perciò assimilabile a «un vero inconoscibile di cui vediamo solo la buccia, cioè le manifestazioni fenomeniche».

Lungi dal ripiegarsi in un elogio della costitutiva inaccessibilità del linguaggio, il libro di Raffaele Simone interroga lingue e parlanti attraverso una macchina concettuale che dispiega grandi capacità di astrazione e notevoli doti di investigazione empirica. Un nutrito insieme di questioni viene affrontato miscelando analisi di dettaglio e riflessioni centrate sui modi di organizzazione del linguaggio – sul suo software, secondo il titolo dell’opera – mettendo dunque a disposizione un ventaglio di opzioni teoriche che coniugano preoccupazioni epistemologiche e domande sulle peculiarità dei fenomeni linguistici. L’equilibrio tra le due istanze è stata, a lungo, una promessa da marinaio: lo dimostra la storia dei saperi linguistici dell’ultimo secolo, dove le peculiarità dei fenomeni sono state talora trascurate ottenendo risultati insoddisfacenti di quei requisiti di generalità senza i quali non vi è conoscenza né della buccia né del software del linguaggio.

Istruttive, in questo senso, le pagine che il saggio di Simone riserva a un concetto chiave della logica e della linguistica del Novecento: la ricorsività. Proprietà singolare dei sistemi formali, la possibilità di applicare ripetutamente una regola sul risultato di sue precedenti applicazioni ha sedotto a tal punto i linguisti da imporsi per voce di Noam Chomsky come la caratteristica più elementare del linguaggio.

Anche Simone assegna alla ricorsività un ruolo primario nella sfera dei fatti umani, suggerendo tuttavia dubbi condivisibili. Pur riconoscendo la rilevanza di alcune varianti linguistiche del meccanismo ricorsivo, ricorda alcuni casi che sembrano ridimensionarne la portata. Quello più significativo, e più controverso, riguarda la lingua pirahã del Brasile, refrattaria alla subordinazione sintattica e agli incassamenti tipici di frasi entro frasi che caratterizzano un genere fondamentale di ricorsività linguistica: l’embedding – ad esempio, una frase relativa dentro un’altra relativa.

D’altro canto, non mancano pareri di segno opposto. Come stanno allora le cose? L’ipotesi è che Simone sia solo secondariamente interessato a una risposta definitiva: benché abbia le conoscenze per entrare nel merito della questione, cosa che fa intuendo peraltro originali aspetti cognitivi della ricorsività, Simone è anzitutto preoccupato di suggerire attraverso il pirahã quella indicazione di metodo che è una delle tesi di fondo del volume: aver cura, interrogando il linguaggio, di mantenere un assiduo contatto con le lingue.

Come mostra il caso del pirahã, appunto, sono le lingue, ossia le realizzazioni storiche del software, a dover costituire il pur incerto terreno di prova della ricorsività, e, in senso ampio, di qualsiasi costrutto metalinguistico. Ma non è che una delle tesi avanzate nel testo, accanto alle tesi sul concetto di narrazione in quanto «fonte primeva» del linguaggio, e altre relative al concetto di discorso in quanto «messa in scena virtuale» di attori, eventi e relazioni particolari. Ciascun argomento viene sviluppato parallelamente all’esame di esempi tratti da lingue diverse, dando modo di sperimentare il valore di quell’indicazione nel farsi stesso del libro. E questo perché le lingue – oltre a essere un terreno di prova metalinguistica – sono per Simone il luogo di iscrizione storica del linguaggio, ossia la trama che la storia evolutiva di Homo Sapiens ha plasmato per rendere parzialmente visibile l’invisibile e le sue operazioni.

Che si discuta di narrazione o discorso, allora, è dalle lingue (e dai parlanti) che occorrerà partire. Potrebbe esserci spazio per le neuroscienze in questa analisi? Non è escluso, ma quel che importa è che Simone evita di iscrivervi la linguistica come ne fosse un’appendice, perché convinto che i meccanismi delle lingue non sono assimilabili tout-court ai meccanismi del cervello.

Nell’assiduo contatto con le lingue, e nell’invito a mantenerlo, sta dunque la traccia di un programma di ricerca che ha il proprio germe nella tensione tra visibile e invisibile: proprio di questa tensione, Il software del linguaggio offre un affresco prezioso, nel quale scrutare, inoltre, l’antico e faticoso mestiere di chi ha consacrato al linguaggio le ricerche di una vita.