Alla domanda paradossale se sia nato prima l’uovo o la gallina, Raffaele Simone risponderebbe con certezza. Già nel 2012, il noto linguista introduceva, nel suo saggio Presi nella rete, la nozione biologica di esattamento, in antitesi ad adattamento, per parlare del mondo contemporaneo e della mediasfera. In breve, l’esigenza e il desiderio di comunicare erano il frutto, e non la causa, della nascita e dello sviluppo dei nuovi mezzi tecnologici che apparivano allora come l’ultimo portato di un progresso, anche in termini di democrazia, senza più possibilità di arresto.

Oggi, benché un politologo come Francis Fukuyama abbia dichiarato la fine della storia, sappiamo che la storia non è finita; a rimetterla in moto, spiega Simone, ha contribuito anche la pandemia, che ha esacerbato le debolezze interne alle nostre democrazie, così come ha evidenziato le gravi problematiche ambientali e la necessità di una scienza avanzata e di condizioni igieniche più rigorose. Del pari, la «pace perpetua» che in Europa si respirava da più di settant’anni si è infranta contro il muro di una guerra maledetta che insozza di sangue il suolo ucraino. Eventi entrambi fatali che, legandosi al fenomeno della globalizzazione, ne hanno scoperchiato le storture e le violenze: le disuguaglianze tra i diversi Paesi del mondo, le migrazioni, le fake news, la vittoria della finanza sulla politica.

«La vita sembra perdere le sue protezioni e dover uscire allo scoperto, esposta al rischio, al caso e al pericolo». Sono le parole con cui Raffaele Simone introduce il suo ultimo pamphlet, Divertimento con rovine La nostra vita tra guerra e pandemia (Solferino , pp. 176, euro 16,00), nel quale si interroga sul tema del progresso, della sfera digitale in relazione alle diverse e multiformi problematiche dell’identità (di genere, pubblica, mediatica ecc.), e infine del divertimento quale bisogno irrinunciabilmente radicato nella profondità dell’uomo. Nonostante le apparenti differenze di tema, i tre capitoli enucleano altrettante facce della modernità globalizzata, e ne esplicitano non solo il profilo storico, ma i punti di convergenza come il grande capitale multinazionale che le unisce e le muove, rendendole così difficilmente assoggettabili a un controllo mondiale.

Si tratta di forme dell’eccesso in cui, parafrasando alcuni versi di Andrea Zanzotto pubblicati nel 2009 In questo progresso scorsoio, non sai se «stai per essere ingoiato o per ingoiare». E Simone questo lo spiega attraverso una prosa chiara e ricca di riferimenti a opere saggistiche e letterarie tratte dalle più disparate letterature della tradizione occidentale. Penso alla sua lettura dell’inarrivabile Dostoevskij dei Ricordi del sottosuolo, in cui il Crystal Palace di Londra diviene, varcata da qualche anno la seconda metà del secolo decimonono, il pretesto di una più generale critica nei confronti della civilizzazione. Scrive l’autore: «l’idea di una casa trasparente ma chiusa, in cui la storia non può entrare, appariva a Dostoevskij come il risultato perverso della razionalità spinta all’estremo, alla luce della quale, dissipati tutti i dubbi e le incertezze e risolti tutti i problemi, non rimane che la noia».

Più che alla noia, però, lo sviluppo incontrollato dell’epoca contemporanea, pienamente capitalista, con la sua ineludibile refrattarietà a ogni forma di regolamentazione, ha condotto alla trasformazione permanente dell’ambiente e degli individui, mostrando così il lato degenere e oscuro del benessere, oggi più che mai tangibile e constatabile da tutti, giorno per giorno. Occorre dunque piegare il progresso alla salvaguardia di quanto ancora di buono sopravvive sul pianeta e riparare i danni prodotti dalla violenza della nostra protervia.

Si è forse passato un limite sacro?, si domanda in conclusione Raffaele Simone. Forse. L’aggressione alla natura, l’esacerbamento delle disuguaglianze, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’esercizio di forze distruttive sono segnali dell’avvicinamento a una soglia, superata la quale converrà davvero «pensare la fine». Così la riflessione di Simone conduce a un secondo quesito: e se il ventunesimo fosse l’ultimo secolo della storia umana per come l’abbiamo finora intesa?