Questa intervista è stata portata a termine in modo estremamente difficoltoso a ragione della avanzata sordità dello scrittore e del suo male di vivere che lo vede unico superstite di un cenacolo di amici oramai tutti scomparsi; sentirsi un superstite lo allontana dalla vita e dalle cose del mondo, lo vede annoiato e distaccato al di là del fuggevole piacere della visita estemporanea di un amico.

Che vuoi? (mi chiede con un interrogativo usuale)

Sono qui per parlare con te di un amico che avrebbe compiuto cento anni e di te che sei alle soglie del secolo (Raffaele compirà cento anni ad ottobre): Pier Paolo Pasolini. Discorsi di lana caprina ma chissà come sarebbe stato Pier Paolo oggi e come, in che direzione si sarebbe sviluppata la sua letteratura.
Beh, difficile a dirsi. Però ti dirò una cosa forse banale: non me lo immagino Pier Paolo vecchio. Sarà per quel che è successo, e non voglio neanche fare riferimento ai versi di Menandro, ma lui è morto giovane. E tale resta. E, a proposito della letteratura, egli stesso dichiarò che Petrolio sarebbe stato l’ultimo romanzo. Ma sono tutte chiacchiere, è difficile parlare di cose astratte, lo hai detto tu: discorsi di lana caprina.

Perché è stato ucciso Pasolini?
Si è parlato di complotto ma non ho elementi né per confermarlo né per sconfessarlo. Però sono certo che il consesso sessuale non ci entra manco lontanamente. Lo sapevano tutti che Pasolini aveva un atteggiamento nei confronti del sesso prossimo all’ossessione erotica. Figurati se si faceva tutti quei chilometri per appartarsi con un ragazzetto! Ma quando mai!

Io vedo il delitto Pasolini come un sacrificio tribale, una sorta di metalinguaggio nell’eliminazione dell’altro da sé.
Certamente racchiudeva nel suo essere tre condizioni stridenti, dissonanti l’una dall’altra: era cattolico ma comunista, e per giunta omosessuale. Troppo per la società dell’epoca.

In una società, voglio ricordarlo, dove Franca Rame veniva stuprata su ordine del Comando della Caserma Pastrengo e lì, ricevuto l’esito dell’operazione, si brindava a champagne. Una comunista non poteva che essere una puttana, ed essendo lei di «diverso parere», da punire.
Beh, questa cosa che hai ricordato ci aiuta a fare luce. Se una persona meno importante di Pasolini riceveva questo trattamento, allora il delitto politico ci può pure stare. Io ho sempre ammirato l’impegno civile di Pier Paolo Pasolini, meno la sua letteratura.

Spiegati meglio.
Io ho letto i suoi romanzi e mi sono piaciuti però lo trovavo inconcludente.

Inconcludente in che senso?
Inconcludente, inconcludente (ripete come infastidito).

La risposta mi ricorda il ‘no’ secco che Pasolini oppose a Rossana Rossanda allorché quella gli chiese se «La storia» della Morante apriva nuovi orizzonti al romanzo italiano. Lo scrittore non motivò il suo ‘no’, alzò i tacchi e lasciò la compagnia (da un ricordo di Renzo Paris, ndr)…
Qual è stata la tua frequentazione del cenacolo romano, e voglio riferirmi a Pasolini, a Moravia, a Flaiano, alla Morante, ad un Mario Soldati sempre di passaggio.
Questi che nomini li ho conosciuti tutti, evidentemente, e frequentati anche se alcuni in modo estemporaneo. Io venivo da Napoli e i miei amici storici erano Francesco Rosi, Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Vittorio Caprioli. E poi c’è una cosa strana da dire. Avevo l’impressione di essere considerato un intruso, tu vieni da Napoli che c’azzecchi con noi? Ma io a Roma venni presto e lavorai da subito in Rai, e indipendentemente dalle radici facevo parte del panorama.

Nel ’68 Pasolini ritirò dal Premio Strega il suo «Teorema» in aperta polemica con Alberto Bevilacqua che vinse quell’anno con «L’occhio del gatto», un romanzo non proprio indimenticabile. Ma la polemica ci stava tutta. Pasolini passò da Garzanti a Einaudi, non poteva continuare a pubblicare dove pubblicava pure Bevilacqua. Mi sfugge però la polemica con Fenoglio del ’59.
Che io ricordi successe un fatto analogo. Fenoglio concorreva, aspetta un po’, porca miseria…con Primavera di bellezza! Ma bisogna fare un passo indietro. Fenoglio era un autore einaudiano. Passò a Garzanti perché ci era rimasto male per il risvolto di copertina che gli aveva fatto Vittorini per La malora. Pasolini, anche lui con Garzanti e che si presentava con Ragazzi di vita, non prese bene il fatto che il suo concorrente non si ritirasse. Mi pare pure che Fenoglio scrisse del perché del suo rifiuto a ritirarsi.
Pasolini era, in certe occasioni, umorale. Se noi vogliamo commemorarlo nel modo giusto non possiamo farne un santino, dobbiamo considerarlo – a distanza di tanti anni – un essere umano. E come tale, come tutti, era soggetto a incespicature.
Provò del livore per Fenoglio e, successivamente, lo stroncò in modo pesante. E questa cosa non fu bella.

Ora, ferma restando la validità dell’assunto pavesiano quando fu lui a vincere lo Strega («Si consolino i perdenti, i migliori non vincono premi» -ma lui lo aveva appena vinto-), perché secondo te Pasolini non vinse mai?
La vittoria di un premio letterario ha parecchie variabili. Hai ricordato giustamente Pavese, e Pasolini rimane certo uno scrittore di vaglia pur senza aver vinto lo Strega. Mettiamola così: molti lo hanno meritato, altri no, molti che lo avrebbero meritato furono affondati per ragioni di scuderia.

Hai detto una volta che Pasolini non ti amava molto per la tua eleganza, per la tua ricercatezza nel vestire.
Vedi, siamo al punto. Ognuno veste come sa. Io venivo da una borghesia dove la giacca e cravatta erano la normalità. Quanta gente ho conosciuto, non del mio ambiente che, una volta in pensione, continuava a vestirsi con un completo e la cravatta. Avrebbero potuto affrancarsi da questo ‘cappio’ cui lo avevano costretto anni di ufficio ma, alla fine, diventava una forma mentale. Piuttosto, chissà se Pasolini ha mai saputo che qualcuno lo considerava un giovanilista proprio per il suo modo di vestire: il giubbotto di pelle, i jeans stretti, gli stivaletti. Io non l’ho mai criticato, Pasolini era così. Se, improvvisamente, lo avessi visto vestito in modo paludato ci sarei rimasto male.

Ci manca Pasolini?
Ogni scrittore che ha lasciato il segno, ogni polemista lascia traccia di sé. E poi come separare l’uomo dalla sua fine atroce? Certo Pasolini non rimane nella storia della letteratura per la sua fine ma per i suoi scritti, per la sua ricerca ma l’eco della sua morte violenta ci accompagna ancora adesso che sono passati tanti anni.

Fefè, come l’ho sempre chiamato io, rinunciando a chiamarlo Dudù per pudore (Dudù lo chiamavano i suoi amici storici), si barcamena tra il divano e il letto e dal letto mi manda un saluto («Che fai, te ne vai?»,«Sì, ora vado»,«Allora stammi bene» e fa un cenno di saluto con la mano mentre si aggiusta il cuscino). Anche Ilaria se ne è andata. Non lo intervisterò più. Rimane il ricordo di un hombre elegante in giacca pied de poule, l’immancabile cache col e i mocassini («Hemingway, nella sua villa all’Havana, ne conservava a diecine», «Embè, vuoi mettere il mocassino contro quelle scarpacce con le stringhe?») col quale, ogni settimana, degustavo un Campari al Caffè Doria in via della Gatta. Poi quel signore si liberò dagli orpelli e cominciò a vestirsi in modo approssimativo ma libero, finalmente.