Percussioni. Suoni ipnotici, voci ancestrali. Corpi in movimento. Nel buio, tra i fumi misterici di una genesi. Corpi nudi. Corpi neri. Di uomini. Donne: regine madri partorienti guerriere. Maschere. Danza e ritmo. Cortei di vite, un flusso. È un’ubriacatura di bellezza, un’esplosione di identità rimosse Behind the South: Dances for Manuel, lavoro della compagnia afro- colombiana Sankofa Danzafro che debutta in prima europea alla Biennale Danza (24- 25 luglio Teatro Piccolo Arsenale). Un omaggio allo scrittore colombiano Manuel Zapata Olivella e alla sua opera più famosa, Changó, el gran putas, che documenta la diaspora africana nel continente americano. Rafael Palacios, coreografo, ricercatore nel campo della danza tradizionale, afro-contemporanea e urbana, ex allievo di Germaine Acogny, ha fondato la compagnia nel 1997. L’abbiamo intervistato prima dell’arrivo in Biennale.

Come nasce la Sankofa Danzafro?
Sankofa è una parola del Ghana. Significa ritorno alle origini. È anche un concetto filosofico che invita a conoscere il passato per comprendere il presente e avanzare verso il futuro. Il mio lavoro come coreografo con la mia compagnia in Colombia inizia da qui. Ho sempre danzato, fin dalla tenera età. Ho sempre pensato che danzando potessi ritrovare le mie radici africane, conoscere e comprendere la nostra storia.

Tornare alle radici significa scavare nelle identità e nella storia della questione africana. Che ruolo ha la danza in questo processo?
Tutto questo è collegato allo schiavismo, ai fatti storici che hanno segnato alcuni esseri umani. La danza è una lingua che permette di esprimere ciò che il linguaggio parlato non può dire. È uno strumento culturale che ha permesso a molte persone di esprimersi con i loro corpi. La danza africana è arrivata in Colombia e nelle Americhe attraverso tutte le storie delle persone che sono state schiavizzate. Sono nato in Colombia, a Medellin, sono nero. Medellin è una città di bianchi. Mio padre è nero, è lui che mi ha insegnato a danzare. Grazie a questo ho potuto trovare la mia identità come uomo nero. La danza mi ha fatto trovare una collocazione nel popolo di mio padre. È la danza che ci da la forza per parlare al mondo, costruirlo. Questo per noi è molto importante, parlare a chi non viene visto dalla società. Penso a tutti quei giovani afro colombiani che abitano a Medellin e che non hanno le stesse opportunità degli altri. Ci incontriamo e discutiamo di queste questioni, le esprimiamo attraverso la danza. Ecco come la danza diventa un luogo politico: non si tratta solo di movimento, la danza fa sì che possiamo esprimerci per chiedere la garanzia dei diritti e riprenderci il posto che questa società ha occupato.

In questo «ritorno alla fonte» la tradizione ha un ruolo molto importante. In che modo la danza delle origini dialoga col presente?
Sankofa è il ritorno alle origini ma anche un invito a guardare al futuro. La tradizione per noi è importante, non perché riguarda il passato. Per esempio Currulao, Mapalì, Jota Chocoana sono danze afro colombiane tradizionali, eppure vengono ballate tutti i giorni nelle nostre città. La tradizione non si idealizza, non è qualcosa di perfetto. Si attualizza, parla della contemporaneità, del contesto culturale, politico, geografico in cui ci troviamo a vivere. Nostro interesse è creare un ponte tra i giovani e i più anziani per preservare una tradizione che deve essere flessibile. È fondamentale riconoscere che le nuove generazioni sono capaci di creare nuove tradizioni. Ricordiamoci che la danza professionale non è solo la danza classica o la danza contemporanea che si fa in Europa. C’è una danza contemporanea del sud globale. Questa danza parla dal locale all’universale. Apre a una visione più ampia, cosmica, dei popoli. I danzatori Sankofa hanno appreso nei loro villaggi le danze tradizionali, queste nuove connessioni ci mettono in contatto con le nostre epistemologie, l’epistemologia di un corpo danzante capace di parlare al mondo.

«Behind the South: Dances for» che debutterà alla Biennale Danza si ispira all’opera di Manuel Zapata Olivella. Perché siete partiti da questo testo, come create i vostri lavori?
Quando decidiamo l’argomento di uno spettacolo partiamo sempre da un’esperienza vissuta. Ad esempio, noi tutti abbiamo conosciuto il razzismo. Da qui iniziamo a creare la drammaturgia che è espressione di una comunità. Un danzatore non può esprimersi nella solitudine, tutta la comunità afro colombiana trova espressione dei danzatori Sankofa. Spesso si pensa che la cultura nera sia solo orale. Questo testo è stato scritto da Manuela Zapata Olivella, uno scrittore colombiano che ha parlato e scritto della Colombia con gli occhi di un uomo nero. Abbiamo voluto omaggiare il suo lavoro, l’epopea Changò è la genesi dei neri in America Latina. Cinque libri complessi in cui si parla anche di Benkos Bioho’ che ha fondato il Palenque, la prima comunità di schiavi che si auto liberarono in Colombia. Volevamo ci fosse un riconoscimento della spiritualità Changò, i neri hanno lasciato l’Africa ma la loro vera emancipazione può realizzarsi solo se c’è un lavoro congiunto, fatto insieme. È un libro che parla di noi, di chi siamo, per noi era importante portare in scena questa storia.

È la prima volta che vi esibite in Italia. Cosa rappresenta questa tappa?
La possibilità di essere ascoltati in un altro Paese attraverso le nostre parole, la nostra danza, la nostra visione estetica, politica. È anche molto importante per l’Italia riconoscere la nostra storia, i diversi modi di avvicinarsi alla danza, all’arte, alla storia che viene dal sud globale. Credo si tratti di una questione di ri-equilibrio. Noi in Colombia conosciamo l’Italia, la Francia, tutta la storia europea. Questa è l’educazione che ci è stata data dal colonialismo. Forse adesso è giunto il momento di conoscere un’altra modalità di costruire il mondo, attraverso un corpo che danza. È bello che alla Biennale di Danza ci sia una così grande varietà di espressioni e culture e artistiche. Credo che alcune questioni stiano iniziando a vacillare, per esempio la differenza tra danzatori professionisti e non, si iniziano a smontare alcuni stereotipi. Cos’è un professionista? Cosa fa di un danzatore un professionista? Ci sono diversi modi di essere professionisti in tutto il mondo. Questi sono interrogativi che ci permettono di riconoscere che siamo delle persone, e non dei soggetti che devono essere studiati. Si tratta di dire al mondo che siamo degli esseri umani, tutti devono avere le stesse possibilità e opportunità di raccontare la propria storia. È arrivato il momento.

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Biennale Danza, dal programma
Leone d’oro alla carriera a Cristina Caprioli, danzatrice, coreografa, teorica sperimentale, accademica e curatrice, di cui si presenta il lavoro più recente « Deadlock, Flat Haze e Silver», Leone d’argento a Trajal Harrell presente con due opere, « Sister or He Buried the Body» e «Tambourines», la Biennale Danza diretta da Wayne McGregor – riconfermato per il biennio 2025-26 – lavora intorno al tema del corpo nell’epoca della tecnologia e della vita umana. Fra gli artisti in cartellone anche Shiro Takatani (fondatore di Dumb Type), con «Tangent»; Melisa Zulberti con «Posguerra», una riflessione sul concetto di tempo; Cheng Tsung-lung con «Waves».